
Stralci d’intervista a Marita Rampazi.
Insegna Sociologia generale e Sociologia della globalizzazione all’università di Pavia.
Riassumiamo l’ipotesi di partenza che vorremmo discutere. Le nuove generazioni, nate e cresciute nell’incertezza, stanno sviluppando nuove modalità di fare esperienza che sono segnate da una dinamica di attraversamento continuo dei confini. In altre parole oggi sembra che per andare alla ricerca dell’appuntamento tra sé e il mondo sia necessario “sconfinare”. Come dire, non basta attraversare una volta per tutte la linea d’ombra, ma occorre disporsi a un processo di sconfinamento permanente. Pensa che sia un’ipotesi plausibile per comprendere alcuni fenomeni che caratterizzano il modo di essere al mondo dei giovani?
Il concetto di “sconfinamento” è molto suggestivo, tuttavia, ritengo che esso vada precisato, per evitare il rischio di cogliere solo una parte della realtà giovanile contemporanea, che è molto diversificata e connotata da forti ambiguità e ambivalenze. Per “sconfinare”, bisogna avere dei “confini” da attraversare, muovendo da un habitat definito e familiare, per proiettarsi in un “altrove” relativamente poco conosciuto, da esplorare e, se possibile, da conquistare. Tuttavia, non tutti, oggi, si trovano in tale condizione. Anzi, la principale difficoltà, soprattutto per i giovani, alla ricerca di un senso per il proprio esistere, consiste nel fatto che l’esperienza del confine sta diventando sempre meno “normale”. A seguito del progressivo sbiadire delle delimitazioni – fisiche, culturali, normativa – con cui la razionalità otto-novecentesca ha contribuito a dare visibilità e significato a luoghi, appartenenze, sfere dell’agire, le nuove generazioni si affacciano su un mondo, i cui orizzonti si sono enormemente dilatati, ma sono diventati anche più nebulosi nei loro significati. Il rischio, come ormai si rileva da più parti, è quello non solo di non sapere verso che cosa si sta andando, ma persino di non avere una chiara consapevolezza dei contorni del proprio qui e ora. I confini sono un vincolo, che può delimitare, talvolta ingabbiare. Contemporaneamente, tuttavia, essi sono una risorsa per dare qualche forma d’intelligibilità al mondo. Al loro interno, troviamo un certo ordine, certi significati, certe pratiche, la cui fisionomia si precisa proprio per il fatto di trovarsi al di qua della linea – fisica e/o immateriale – lungo la quale scorre il confine. Al di là, si trova ciò che è lontano, altro, rispetto a qualche tipo di definizione di sé, su cui poggia la rassicurante consapevolezza di esistere.
Il confine non sembra dunque vissuto come risorsa?
In effetti, per molti giovani – e meno giovani – è urgente recuperare, quantomeno in via provvisoria, il senso del confine, elaborando strategie assai diverse nella loro natura e nei loro esiti. Da un lato, ad esempio, abbiamo soggetti dotati di elevate risorse di riflessività, che tentano di dare consistenza al proprio percorso di vita, orientando l’agire all’affermazione di valori relativamente sottovalutati dai grandi “racconti della ragione” del passato. Penso, ad esempio, al rispetto per la dignità della persona e per l’ambiente, alla tutela della qualità della vita, all’affermazione di forme nuove di socialità. Dall’altro lato, troviamo individui paralizzati dalla paura del vuoto, che si racchiudono nel guscio del proprio microcosmo quotidiano, senza capacità/opportunità di effettivo sconfinamento. È quanto accade a quegli adolescenti, il cui unico orizzonte di senso è rappresentato dall’appartenenza a una banda, a un gruppo chiuso di amici. Oppure, nei casi-limite, a quanti circoscrivono tale orizzonte alle mura della propria camera, sviluppando forme patologiche di rifiuto del mondo, come testimoniato dal fenomeno degli hikikomori. Fra queste due modalità polarizzanti, se ne intravede una terza, tipica di soggetti che definirei “accumulatori seriali”, i quali esasperano il mito contemporaneo dell’accessibilità, puntando sull’accumulo indiscriminato di contatti, informazioni, sensazioni, per supplire, con la quantità, all’inconsistenza qualitativa della propria condizione esistenziale. Per tornare alla domanda, quindi, penso che l’immagine dello sconfinamento permanente sia molto utile per sottolineare il dilatarsi delle possibilità, per i giovani contemporanei, di dare libero corso al desiderio di esplorare l’intero universo dei possibili, con la prospettiva, molto realistica, di dover continuare tale esplorazione per un lungo periodo di tempo. Si tratta di un desiderio che è sempre stato connaturato agli anni dell’adolescenza e della giovinezza, anche se, in passato, era proiettato verso orizzonti più limitati di quelli odierni e riguardava una fase della vita meno indefinita nella sua durata. Ciò che l’immagine dello sconfinamento permanente lascia in ombra, invece, è l’altro polo dell’ambivalenza che caratterizza la condizione giovanile: il rischio della paralisi o del girare a vuoto, in una condizione dove non è possibile sconfinare, dato che il punto di partenza è privo di consistenza. Per tenere conto di entrambe le polarità, solitamente, faccio ricorso alla metafora della navigazione, che mi è suggerita da alcuni scritti di Arjun Appadurai. Questo autore ragiona sulla diseguale distribuzione della “capacità di navigare”, quando s’interroga sulle differenti opportunità che i soggetti hanno di proiettarsi nel futuro, in un contesto denso di incertezze, che – ritengo di dover aggiungere – sembrano privare di senso il concetto stesso di progettualità.
Come navigare nella provvisorietà?
La capacità di navigare ci riporta a una questione cruciale: come ci si orienta e come si impara in assenza di punti di riferimento consistenti. Da più parti si parla di apprendimento multitasking per indicare il modo contemporaneo di esplorare il mondo, di accumulare e produrre conoscenza: dall’informalità al formale, dagli scambi sociali a distanza a quelli in presenza, dalle forme di iper-specializzazione degli interessi agli sconfinamenti più inattesi. Se questo è il modo di apprendere oggi, quali sono i rischi e le opportunità in gioco?
Oggi non è più possibile formulare progetti di vita, in senso tradizionale. Non si può, cioè, pensare di orientare la propria biografia al raggiungimento di tappe ben definite socialmente, poste in successione e finalizzate alla conquista di un determinato status adulto, da non mettere più in discussione alla fine della moratoria giovanile. Si possono, però, elaborare delle ipotesi circa il senso che vorremmo imprimere al nostro “divenire” di persone, che aspirano a lasciare una traccia di sé nella memoria del proprio habitat. E si può tentare di costruire un percorso che ci consenta di declinare tale idea di “divenire” in qualche tipo di agire concreto, entro la realtà in cui ci troviamo a dimorare, in un dato momento della biografia. L’importanza di questa sperimentazione non è affatto sminuita dalla consapevolezza che, in futuro, potrebbe rendersi necessaria una modificazione delle ipotesi iniziali sulla strada da imboccare, per tenere conto degli imprevisti che s’incontrano lungo il cammino. Questo significa che l’unica possibilità, oggi, di pensare al futuro in modo costruttivo è quella di formulare dei progetti “a geometria varabile”, muovendo da ipotesi, necessariamente provvisorie, da sottoporre alla prova della realtà, tramite concrete forme di agire responsabile.
Come coniugare tale progettualità accettandone la provvisorietà?
Prendiamo, ad esempio, l’incertezza per il proprio futuro lavorativo e per il riconoscimento sociale ad esso collegato, che può tradursi in un vissuto di precarietà, potenzialmente paralizzante ai fini della costruzione di sé come durata, vale a dire, come soggetti capaci di raccontarsi in una prospettiva di divenire. È quanto denunciava alla fine del secolo scorso Richard Sennett, rappresentando l’uomo flessibile come prigioniero di una sorta di paralisi temporale, appiattito su un quotidiano, talvolta caratterizzato da un iperattivismo frenetico, ma privo di significato per la biografia. Questa lettura, tuttavia, non è l’unica possibile. In alcuni casi, anziché all’idea di precarietà sembra più corretto riferirsi al concetto di provvisorietà e al suo statuto ambivalente. Da un lato, evoca fenomeni di sradicamento, disagio identitario, frammentarietà della narrazione di sé, fonte di potenziale neutralizzazione affettiva. Dall’altro lato, la non-fissazione, implicita nell’idea di provvisorietà, rimanda all’autonomizzazione del soggetto favorita dal processo di individualizzazione.

Più nomadi che vagabondi
Da questo punto di vista, torna ancora in primo piano ciò che Zygmunt Bauman definisce la “strategia post-moderna generata dall’orrore di essere legati e fissati”, attualizzando le metafore del vagabondo, del turista, del flaneur e del giocatore. Fra queste metafore, quella del vagabondo sembra coniugarsi perfettamente con il senso di provvisorietà connesso alla destrutturazione delle carriere e alla mobilità – spaziale e funzionale – implicite nel modo con cui si tende a interpretare, oggi, la flessibilizzazione del lavoro. Il vagabondare contemporaneo descritto da Bauman non riguarda scelte o sfortune dei singoli, ma il progressivo sbriciolarsi della strutturazione sociale dello spazio, l’assenza di luoghi “organizzati” in cui potersi stabilizzare. Si tratta di una condizione oggettiva di disancoraggio, che si coglie nell’esperienza diffusa di molti giovani, che al tempo stesso non risulta esaustiva. Più frequentemente, la provvisorietà, si lega a una situazione di nomadismo: una mobilità, nel quotidiano e/o nella dimensione biografica, caratterizzata da molteplici passaggi, e ritorni, entro luoghi che, agli occhi degli intervistati, mantengono precisi caratteri di “organizzazione”. Ripensando ad alcune ricerche sulla condizione giovanile, il nomadismo emerge come un tratto normale dell’esperienza possibile agli occhi dei giovani, soprattutto in relazione alla necessità di saper cogliere, ovunque si trovino, le opportunità formative e lavorative prospettate dal mercato. A differenza del vagabondo, il nomade non gira a caso. Egli sceglie un percorso disegnato da una finalità precisa: trovare le risorse che consentano di “crescere” ed, eventualmente, imbattersi nel “posto giusto” dove potersi stanziare. Nella misura in cui gli scenari stessi del quotidiano sono mutevoli e imprevedibili, la risposta alla domanda: “Chi e che cosa posso diventare?” – alla base del dilemma identitario – si può cercare solo per approssimazione successive, attraverso una continua negoziazione interpersonale dei significati delle scelte. L’importante, è “attrezzarsi” per saper gestire questa negoziazione, sfruttando le opportunità che si presenteranno volta a volta, nell’immediatezza della vita quotidiana.
Che tipo di apprendimento ciò comporta per le nuove generazioni?
Riprendo la metafora della navigazione, che mi sembra molto utile per ragionare sul nostro interrogativo. Per navigare, occorrono, in primo luogo, delle risorse materiali: una barca, o una nave, dotata delle attrezzature necessarie. Se la navigazione è finalizzata a individuare delle opportunità occupazionali sul mercato del lavoro globale, ad esempio, bisogna disporre delle condizioni materiali che ci consentono l’accesso a questo mercato. In primo luogo, bisogna poter viaggiare e saper usare Internet. Un giovane proveniente da un ambiente svantaggiato sarà esposto alla situazione paradossale di vivere entro un orizzonte culturale che gli dice: “Puoi accedere a ciò che vuoi, purché tu sia capace e determinato” e contemporaneamente, di sperimentare una situazione familiare e personale che lo priva degli strumenti indispensabili anche solo per tentare l’accesso. Banalmente, non si può viaggiare, neppure con voli low cost, se si vive ai limiti della sopravvivenza; non si possono usare le risorse di Internet, se non si dispone di un computer e di un sistema di connessione in rete. Inevitabilmente, in questo caso, il rischio di una paralisi della volontà, dovuta al senso d’impotenza e frustrazione. Una volta garantito il possesso di queste risorse materiali, occorre imparare a navigare.
Che cosa significa?
Significa avere al proprio fianco qualcuno che ci insegni i rudimenti della navigazione, sostenendoci nei nostri tentativi di far muovere la barca su cui ci troviamo. E significa anche disporre di una serie di mappe, fisiche e mentali, che ci consentano di cogliere il mutare delle condizioni del mare, dei venti, al fine di adeguare la nostra rotta a tali cambiamenti. Come è sottolineato nella domanda, i giovani sanno di doversi munire di tali “mappe”, accumulando e producendo conoscenza, allo scopo di essere “attrezzati” culturalmente per affrontare la navigazione in mare aperto. Tornando all’esempio precedente, bisogna sapere l’inglese, essere capaci di trovare i siti di domanda e offerta di lavoro e saperne valutare l’affidabilità, sviluppare le conoscenze e competenze soprattutto personali, oggi più apprezzate sui mercati internazionali. Tuttavia, questi stessi giovani percepiscono anche la difficoltà di dover elaborare e costruire tali mappe in modo relativamente autonomo, senza poter contare su carte e bussole già sperimentate e, soprattutto, senza avere al fianco qualche marinaio esperto che li sostenga nei primi, maldestri, tentativi di uscire dal porto. Per sintetizzare questo punto, fuori di metafora, è inevitabile che, di fronte all’incertezza degli orizzonti contemporanei, sia indispensabile dotarsi di “un’attrezzatura” ampia e diversificata, per rispondere prontamente alle opportunità e agli ostacoli che il caso, il destino, o semplicemente la vita, ci potrebbero proporre. Si tratta di un’attrezzatura che, tuttavia, non serve a nulla se non poggia sulla capacità riflessiva di leggere il mondo e interpretare il senso di quello che accade.
Le appartenenze di una generazione poligama
Un’altra dimensione che ci sembra interessata dagli sconfinamenti riguarda i processi di partecipazione. Come stanno cambiando le modalità di sentirsi parte? Sono davvero tramontate le dinamiche di affiliazione, le appartenenze esclusive? Siamo forse di fronte a una generazione poligama?
Tutti gli osservatori concordano sul fatto che, oggi, non abbia più senso parlare di appartenenze esclusive. Per certi versi, questo è vero, ma, per altri, non mi sembra che cose le stiano così. Di fronte alla progressiva destrutturazione della vita pubblica, troviamo, da un lato, giovani che cercano di ricostruire un senso dell’essere insieme in un progetto condiviso, facendo leva su grandi ideali universali di giustizia, equità, rispetto e, dall’altro, altri soggetti che si chiudono in una difesa strenua e acritica di identità tradizionali, intese come l’unico baluardo possibile contro la dissoluzione della propria identità. Certo, per i primi, le affiliazioni sono vissute come forme di identificazione non necessariamente durevoli: ciò che dura è il valore, mentre l’affiliazione è transuente, soggetta al rapido mutamento degli scenari, locali, nazionali e internazionali, nei quali si proietta la propria volontà di azione. Riferendoci ad essi, possiamo effettivamente parlare di poligamia, mentre i secondi sono soggetti a pericolose tentazioni integraliste, o al vuoto del cinismo e del disincanto. D’altra parte il concetto di poligamia e in particolare di poligamia di luogo emergeva già in una ricerca realizzata qualche anno fa sulla costruzione dello spazio-tempo dei giovani, per segnalare una precisa strategia di stabilizzazione di un’immagine di sé coerente, indipendentemente dalla frammentarietà del contesto.
Come comporre questa poligamia?
Si tratta di un fenomeno che sottintende una temporalità giostrata fra più “tavoli” fortemente organizzati e connotati dal punto di vista identitario: analoga, a ben vedere, a quella che caratterizza la doppia presenza femminile. Il tratto distintivo della poligamia di luogo non è tanto la provvisorietà, quanto la sovrapposizione di spezzoni di vita, ciascuno dei quali ha una propria logica temporale e una specifica valenza etica. Questo concetto è stato coniato da Ulrich Beck in relazione alla fine dell’esclusività delle identificazioni territorialmente fondate – quella nazionale, in particolare. La non esclusività cui allude Beck deriva dall’accresciuta mobilità geografica fra stati e continenti diversi, innescata dalla globalizzazione economica, che ha spostato sino ai limiti del globo i confini dell’agire professionale di numerose categorie di soggetti e oggi produce i suoi effetti ben oltre la sfera dell’economia e del lavoro. Gli individui sono così in condizione di potersi costruire percorsi identitari che si alimentano in una pluralità di identificazioni con contesti culturalmente assai diversificati. Nella ricerca che citavo abbiamo trovato alcuni casi di poligamia di luogo à la Beck, tuttavia, la declinazione più interessante di tale metafora riguarda il modo in cui si organizza la vita quotidiana: un patchwork, per riprendere un concetto di Laura Balbo che si compone e ricompone ogni giorno, “tenendo insieme” la pluralità di contesti, tutti egualmente importanti, nei quali si vivono lo studio e/o il lavoro – spesso distribuito fra più “lavoretti” svolti contemporaneamente – , l’intimità con il/la partner, lo “stare con” gli amici e i famigliari, l’andare in palestra – un appuntamento importantissimo, da non mancare –, il volontariato e così via. La riduzione a unità di questi frammenti è possibile, a condizione di potersi ritagliare un po’ di tempo per sé, in cui “riannodare le fila”, “ritrovarsi” in un processo di costante autoriflessione.
Fonte: Gennaio 2014, Rivista Animazione Sociale, Gruppo Abele, Torino.
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