“Un falò generale dei debiti è una necessità talmente grande che, se non riusciamo a farne un’operazione ordinata e mite, nella quale a nessuno sia fatta alcuna seria ingiustizia, quando alla fine arriverà, potrà crescere fino a diventare una conflagrazione tale da distruggere non solo tutti i debiti, ma molto altro”
J. M. Keynes, The Economic Consequences Of The Peace, London, Macmillan, 1919, pp. 177-78
I DIFETTI STRUTTURALI DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR
La crisi economica del 1929 mise in luce alcune fragilità strutturali della Repubblica tedesca, nata a Weimar nel 1919. Dal punto di vista economico, la Repubblica soffriva, già dai primi anni ’20, di una carenza di risparmio privato da mobilizzare a fini produttivi[1]. Di conseguenza, la crescita economica del paese rimase fortemente dipendente dai capitali internazionali a breve termine, soprattutto americani[2].
I capitali d’oltreoceano andarono a sovvenzionare le amministrazioni statali e i Lander, che li impiegarono nella costruzione di infrastrutture (strade), opere pubbliche (stadi, piscine, aeroporti), edilizia popolare, misure di welfare[3]. Così, la crescita del reddito nazionale tedesco nel periodo 1924-1928 fu trainata principalmente dagli investimenti e dai consumi pubblici, che contribuirono a far lievitare il debito dello Stato[4], mentre l’iniziativa economica privata, a corto di capitali, risultò praticamente irrilevante. Allorché gli americani dreneranno i loro capitali fuori dall’Europa nel 1928 per alimentare la speculazione finanziaria nella borsa di New York, paesi come la Germania si ritrovarono improvvisamente senza finanziamenti, e con un ingente debito estero da rimborsare, costituito per la maggior parte dalle riparazioni di guerra decise a Versailles nel 1919.
Date queste premesse, si comprende facilmente perché la crisi economica del 1929 colpì qui in maniera più forte che altrove. Ciò dipese anche dall’imperfetta architettura istituzionale della Repubblica. Il sistema proporzionale “secco” della legge elettorale tedesca creò infatti una forte instabilità politica durante gli anni della crisi, rendendo necessario il ricorso sempre più frequente ad elezioni e a nuove, effimere maggioranze parlamentari. Inoltre, l’articolo 48 della Costituzione, che attribuiva al presidente del Reich il potere di sospendere alcuni articoli della Carta in casi di emergenza, fu responsabile dell’eccessivo utilizzo dei decreti legge durante il governo Bruening, che di fatto condusse all’esautoramento del Parlamento nella sua funzione di controllo e di bilanciamento del potere esecutivo, e della messa al bando dei partiti politici d’opposizione dopo la presa del potere di Hitler (1933)[5].
LA POLITICA ECONOMICA DEL GOVERNO BRUENING (1930-1932).
Nel marzo del 1930, il presidente della repubblica tedesca Hindenburg nomina Cancelliere l’esponente del Zentrum cattolico Heinrich Bruening, intenzionato a varare tempestive misure anticrisi improntate sul rigore fiscale. Queste verranno fatte approvare ricorrendo perlopiù allo strumento del decreto legge. Metodo discutibile, che avrà come effetto quello di svuotare di fatto i poteri del parlamento, rendendo i provvedimenti ancora più invisi all’opinione pubblica. La severità dei provvedimenti anticrisi è legata alla necessità di ottenere, dalle potenze creditrici dei tedeschi, condizioni più favorevoli per saldare il debito di guerra.
I pesanti tagli alle spese e gli inasprimenti fiscali posti in essere da Bruening sono tutti pensati in chiave di politica estera[6]. Infatti, data la chiusura dei rubinetti del credito internazionale, per compensare lo squilibrio della bilancia dei pagamenti, la Germania deve tornare ad essere competitiva sui mercati. Ciò significa che, nell’impossibilità di svalutare il Reichsmark (che era una condizione posta dal piano Dawes), si dovranno praticare politiche di svalutazione salariale e, per questa via, di calmieramento dei prezzi per incrementare le esportazioni. Per ridurre le importazioni, si agirà invece sulla domanda interna ed in particolare sui consumi, attraverso aumenti della tassazione indiretta (accise, in particolare) e tagli delle spese sociali.
Le chiusure protezionistiche dei maggiori paesi occidentali, però, renderanno velleitarie queste politiche: la Germania non recupererà competitività sui mercati. La situazione economica interna, nel frattempo, si fa sempre più grave. Nel luglio del 1931, infatti, si raggiunge l’acme della crisi economica in Germania, con il crollo della Banca nazionale e di Darmstadt (Danat bank), seconda banca mista del paese. Altre banche (e imprese) si troveranno in grandissima difficoltà. Bruening ordina la chiusura degli sportelli per 3 settimane. Poi, rifinanzia gli istituti di credito. Con il piano di salvataggio del sistema bancario, lo Stato diventa socio di maggioranza della Danat (che si fonde con Dresdner Bank), e acquisisce un terzo del capitale sociale di Deutsche Bank. Per evitare l’emorragia di capitali, la Reichsbank aumenta il tasso di sconto al 10%, si impegna a difendere attivamente il tasso di cambio con l’estero (ciò porterà ad un assottigliamento delle riserve auree, passate da circa 3 miliardi di marchi nel 1930 a 100 milioni nel 1933); il governo, inoltre, introduce provvedimenti restrittivi sui movimenti di capitale. Intanto la moratoria Hoover (fine luglio 1931), che proroga di un anno il pagamento delle riparazioni di guerra, dà un po’ di respiro alle finanze tedesche.
Nonostante ciò, l’austerità non viene allentata, facendo sprofondare l’economia tedesca nel baratro. I numeri parlano chiaro: nel 1932, la produzione industriale crolla del 42% rispetto al 1929; l’attività edilizia si contrae di quasi la metà in due anni; il Prodotto interno lordo del 1932 è del 30% inferiore a quello del 1929[8]. La domanda aggregata è depressa dal maggior costo del denaro (che significa meno investimenti) e dall’aumento della pressione fiscale diretta ed indiretta (che impatta negativamente sulla propensione al consumo). Le conseguenze sociali e soprattutto politiche di tale situazione sono rilevanti. La disoccupazione , che era pari al 6,5% della forza lavoro nel 1929, raggiunge il 30% nel 1932. Ciò significa che quasi 6 milioni di tedeschi risultano senza lavoro nel 1932. La maggior parte dei quali abbandonati a se stessi, visti i drastici tagli ai sussidi di disoccupazione operati dal governo Bruening.
Il risentimento popolare contro la Repubblica democratica e il “Cancelliere affamatore” ha un pesante effetto collaterale: fa crescere i consensi verso il partito nazionalsocialista dei lavoratori (NASDP) e il partito comunista (KDP) nel triennio 1929-‘32. La NASDP di Adolf Hitler, che nel 1928 ottiene meno dell’1% dei consensi, diventa il secondo partito politico già nel 1930 (6, 5 milioni di voti), e, con un boom di suffragi (13,7 milioni), risulta il partito più votato del Reichstag nella prima tornata elettorale del 1932[9]. È evidente il nesso causale tra crisi economica ed ascesa del movimento nazista[10]. La retorica hitleriana ha successo soprattutto tra i contadini, gli artigiani, il ceto medio impiegatizio, gli studenti. Sa interpretare le loro paure, dovute da un lato alla perdita della sicurezza economica erosa dalla crisi, dall’altro all’avanzata del proletariato industriale guidato dal partito comunista, che minacciava la rivoluzione. Inoltre, si conquista l’appoggio dei vecchi gruppi conservatori, i proprietari terrieri e gli industriali (Krupp, Thyssen), nonostante “l’anelito anticapitalista” della prima fase del movimento nazista[11]. Saranno infatti gli industriali, alcuni banchieri (Schroder), ed influenti esponenti della destra moderata (von Papen) a portare avanti un tentativo, poi vincente, di moral suasion nei confronti del presidente Hindenburg, per nominare Hitler cancelliere, in funzione anticomunista. Hitler diventerà effettivamente presidente di un governo conservatore, nel gennaio 1933. Sarà la fine della Repubblica. Hitler si sbarazzerà prima del KPD (messo fuori legge dopo l’incendio del Reichstag, nel febbraio 1933), poi, un mese dopo, di tutti gli altri partiti.
NOTE BIBLIOGRAFICHE:
[1] Il Paese fu colpito nel 1923 da una straordinaria inflazione, provocata da una massiccia stampa di banconote da parte del governo tedesco, per pagare le riparazioni di guerra e i salari dei minatori dell’area carbonifera della Ruhr, impegnati nella resistenza passiva contro l’occupazione francese. Di conseguenza: “l’unità monetaria perse di un milione di milioni il valore che aveva nel 1913, cioè a dire il valore della moneta si ridusse in pratica a zero[…]in breve, il risparmio privato scomparve completamente” H.J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 121-123
[2] “La Germania da sola assorbì quasi la metà di tutta l’esportazione mondiale di capitali nel 1928 e prese in prestito tra i 20.000 e i 30.000 miliardi di marchi, metà dei quali probabilmente a breve termine. Questo rese l’economia tedesca molto vulnerabile”. Ibidem, p. 113
[3] Tutto questo comportava una forte crescita della spesa pubblica: ”Mentre nel 1929 il carico fiscale ammontava ad una quota che era il doppio della percentuale del 1913,[…] le spese del Reich, dei Lander e dei comuni passarono nello stesso periodo da 337 marchi annui a 4 miliardi e 751 milioni di marchi, aumentando dunque più di tredici volte. Lo Stato della Repubblica di Weimar, che godeva di scarsa simpatia, si procurò in tal modo la fedeltà dei gruppi sociali d’interesse con promesse di sovvenzioni e aiuti”. H. Schulze., Storia della Germania, Roma, Donzelli, 2000, p. 154
[4] Per dettagliate statistiche economiche relative alla Repubblica di Weimar, si veda G. Alvi, Dell’estremo occidente. Il Secolo Americano in Europa: storie economiche 1916-33, Firenze, Marco Nardi, 1933, Tabelle Statistiche p. 546
[5] D’altro canto, l’art. 48 ebbe anche un ruolo positivo nell’ “affermazione dell’autorità statale contro la dilagante criminalità politica di destra e di sinistra”. H. Schulze, op. citata, p. 156
[6] C. P. Kindleberger, La grande depressione nel mondo 1929-1939, Milano, Etas Libri, 1982, pp. 151-152.
[7] C. P. Kindleberger, op. citata, pp. 127-130
[8] M. Broszat, Da Weimar a Hitler, Bari, Laterza, 2001, Tabella n. 1, p.277
[9] M. Broszat, op. citata, Tabella n. 2, p.278
[10] “Chiaramente fu la Grande Crisi a trasformare Hitler da personaggio ai margini della scena politica nel padrone potenziale, ed infine effettivo, del paese” E. J. Hobsbawm, op. citata, p. 159
[11] Nei discorsi di guerra hitleriani sono frequenti gli strali contro il potere corruttore del denaro, l’ingordigia della speculazione finanziaria, le banche usuraie (si veda a questo proposito l’analisi di L. Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, Catanzaro, Rubbettino, 2010, pp. 157-173). Quando si trattò però di prendere il potere, la corrente di “sinistra” del partito, rappresentata dai fratelli Strasser, fu rapidamente marginalizzata e poi definitivamente liquidata da Hitler.
Federico Stoppa
L’imposizione di regole ferree e austere a Paesi in difficoltà economica ha portato ad un impoverimento di ampi strati della società e ad una radicalizzazione della politica in Grecia come in altre parti d’Europa.
Una sola osservazione: nel 1919, alla Germania vengono imposti costi di riparazione post-bellica che la porteranno ad indebitarsi ben oltre i livelli accettabili (se a questo si aggiungono i debiti contratti per armarsi si intuisce come fosse impossibile per i Tedeschi onorare gli impegni).
Da tempo la Grecia è tecnicamente in default. L’economia è strutturalmente debole e non competitiva. Tuttavia, a differenza della Germania del 1919, non paga debiti di guerra e non è colpevole di aver scatenato un conflitto bellico internazionale. I debiti accumulati negli anni sono frutto di scelte politiche errate e poco lungimiranti.
Alla Germania è stato imposto di ripagare i debiti di guerra in poco tempo e in solido. Alla Grecia è stato concesso di rinegoziare il debito e di allungarne in tempi, ma a costo di grossi sacrifici (austerity) e a prezzi assurdi (tassi di interesse al 5%).
Se per la Germania non c’era altra via d’uscita che andare di nuovo in guerra nel 1939, alla Grecia è stata concessa la possibilità di riformare il Paese e uscire pian piano dalla crisi.
Il problema è tutto qui: cinque anni fa la Grecia ha espressamente rifiutato di riformare la propria economia. Accettando la Troika e l’austerity ha implicitamente rifiutato le riforme e ha decretato la salvezza dei ricchi e benestanti, unita alla condanna a morte della classe media e dei più svantaggiati.
Credo ormai non ci sia più niente da fare.
Sulla vicenda greca segnalo questo interessante articolo di Wolfang Munchau sul “Der Spiegel”, in cui sostiene che se non si troverà un compromesso sul debito greco non solo il Paese sarebbe costretto a uscire dall’Euro, ma soprattutto potrebbe finire sotto l’ala protettiva di un personaggio molto poco rassicurante come Vladimir Putin. Credo le elités politiche europee – dopo aver trasformato in crisi sistemica una banalissima crisi di debito di un Paese che vale meno dell’1% del PIL europeo – debbano a tutti i costi scongiurare una simile eventualità. http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/griechenland-und-ukraine-was-diese-krisen-gemeinsam-haben-kolumne-a-1017504.html