A proposito di questi nostri nuovi tempi

Qualche giorno fa ho partecipato (ovviamente online) ad un evento di interpretazione simultanea organizzato dall’Università dove insegnavo. Il tema era “Il cibo come epicentro culturale”. Il mio compito era quello di preparare un discorso, in italiano, sui tratti caratteristici della nostra cultura, quando ha a che fare, per l’appunto, col cibo. E quindi parlare dei tempi, dei significati, dei valori, delle infinite ricchezze che abbiamo a un palmo di mano e spesso non ci badiamo neanche, insomma: un sunto, molto azzardato, su cosa voglia dire per noi la creazione di cultura col cibo. Un lavoro pazzesco, se ci pensiamo: solo un malato di mente può avere la pretesa (e la presunzione) di riassumere tutta questa roba in poco meno di 30 minuti a disposizione.

Ebbene, ho fatto quello che potevo, o meglio, ho parlato di quello che forse mi si addice di più, e cioè: usare gli attrezzi della sociologia per dragare la realtà sociale, osservandola da vicino, analizzandola, ascoltandone le sfumature, capirne le dinamiche, in una parola: individuare delle relazioni e dargli un nome, intrepretando così il loro agire e significato sociale.

Il fulcro principale del mio discorso era che, per noi italiani, lo stare insieme è fondamentale, e il cibo è il nostro collante ideale, il nostro protagonista, il nostro mentore per la creazione di relazioni. Il fatto di condividere assieme un tavolo, dove appunto spartire ricchezze culinarie e tradizioni, ha reso quell’oggetto “una tavola”: la tavola per noi non è più un oggetto qualunque, bensì un oggetto con una connotazione sociale ben precisa; è un oggetto che diventa socialità perché impregnato di relazioni tutte attorno. Noi difatti non apparecchiamo mai “il tavolo”; piuttosto “apparecchiamo la tavola”.

Dopo aver terminato il mio intervento, ho pensato a questi nostri nuovi tempi, tempi oltremodo incerti e plumbei, che stanno letteralmente minando proprio quelle nostre tradizioni condivise attorno ad una tavola imbandita. E, come sempre, quando arrivano questi pensieri foschi fanno capolino tutta una serie di domande agglomerate, del tipo: che ne sarà dopo? Quale sarà la risposta organizzata delle relazioni a questo cambiamento che stiamo affrontando? Quali, di conseguenza, gli scenari che ospiteranno i nuovi comportamenti? E le nuove tecnologie, come stanno modificando quei comportamenti? Ci stanno aiutando o ci stanno ostacolando in qualcosa?

Ho pensato allora a queste nostre nuove tecnologie pervasive per ogni occasione, che, pur essendo indiscutibilmente utili su molti fronti – aiutandoci a surrogare tutto quello che momentaneamente non possiamo più fare o possiamo fare in taluni casi solo con le dovute precauzioni –, difficilmente riusciranno a riprodurre la forza di uno sguardo, di un sorriso, di un abbraccio, di un rituale, il sano coinvolgimento di una conversazione dipanata a tu per tu.

Spero si possa costruire insieme un futuro più forte, che renda giustizia ai caratteri del nostro passato che ci permettono di valorizzare ancora certe cose, che per noi restano e – si presume – resteranno importanti. Spero inoltre che, in quel futuro, i dispositivi digitali non diventino – come già tuttora sta purtroppo accadendo – un nuovo ed ulteriore e definitivo strumento di disuguaglianza sociale, e che il fatto di sentirsi a proprio agio con le relazioni umane faccia a faccia non diventi un nuovo indicatore di classe concesso solo ai ricchi, creando così una nuova società divisa in classe non solo rispetto al ceto, ma anche in base alla capacità di far parte del consorzio umano.

In una sua recente pubblicazione, Lisa Iotti l’ha immaginata così: “Da una parte i ricchi, che si possono permettere di non dover cedere pezzi di identità, di attenzione, di concentrazione, rapporti umani in cambio di lusinghe e gratificazioni dell’ego; dall’altra gli altri, tutti noi, intrappolati in un loop di solitudine continua, chiusi nelle nostre individualità, e condannati a vedere sgretolarsi giorno dopo giorno le nostre reti neurali, quelle che si attivano solo durante il contatto fisico con gli altri, quando ci guardiamo negli occhi, ci tocchiamo, interagiamo attraverso la vita. […] Passiamo la maggior parte del nostro tempo dietro a degli schermi, convinti di tessere relazioni, e ci dimentichiamo che le parole non sono solo successioni di lettere, ma azioni: schermo viene dall’antico germanico skirm, «scudo, protezione». Viviamo riparati – schermati – dietro i nostri carapaci argentati, in un gigantesco fast food sociale, e neanche ce ne rendiamo conto. Quando lo capiremo, sarà forse troppo tardi. […] Spero sia solo un’esagerazione, una visione postapocalittica senza apocalisse.”

Scroll Solitude, Edna Arauz

Quanto servirebbe oggi una Sociologia del disastro, servirebbe come il pane. Affrontare la questione sociale, intercettarne i bisogni, ascoltare le fratture interne, capire cosa è rimasto delle relazioni, e da qui costruire un vocabolario condiviso delle ferite, dei fallimenti: un sano percorso riabilitativo per la coscienza e l’agire dell’individuo nella società, che è cambiata e continua a cambiare davanti ai nostri occhi, ma non siamo più in grado di prenderci il tempo necessario per rendercene conto. E questo succede, tra le altre cose, sia per una deprivazione incontrollata dei mezzi pubblici e sociali necessari, sia per quell’anestesia particolare e generalizzata delle sensibilità, che opera indisturbata attraverso i device digitali senza far rumore.

E allora, come riprendersi da questo intrattenimento senza fine? Come ritornare a sentire dolore affinché quest’ultimo sia segno di guarigione?

Io di ricette non ne ho, e non ne ho mai avute, però in questo lungo periodo assurdo che sembra non finire mai, ho riscoperto ancora una volta quanto siano preziose per il mio cervello le famigerate pause, e cioè quel dono impagabile e intangibile dello svagarsi senza distrazioni, solo me e i miei pensieri, nient’altro.

Sembra un’ovvietà, lo so, ma il concetto di ovvio non è mai abbastanza ovvio, soprattutto quando il mondo cade a pezzi e si rimane incollati agli arsenali digitali con la convinzione di distrarsi, di non pensarci, o con l’intenzione di volerne sapere di più (senza, ovviamente, troppi risultati): in queste occasioni, quando per l’appunto si ha immancabilmente uno smartphone in mano, ci sembra di essere in pausa per cazzeggiare, ma non è vero.

L’iperstimolazione a cui ci si espone con i device digitali, che il più delle volte si tramuta in pura distrazione suscettibile all’irrilevante, ci rende difficile l’elaborazione e il consolidamento delle informazioni acquisite, semplicemente perché il cervello ne può acquisire correttamente solo poche per volta, cercando poi di “fissarle”. In realtà, il famoso e millantato “multitasking”, che non smettono mai di propinarci come il mantra risolutivo della nostra vita iperconnessa, è solo un sinonimo di distrazione positivamente abbellito – per inciso, molti studi dimostrano che gli esseri umani non possono fare due o più cose allo stesso tempo (no, neppure le donne; assurdo: anch’io all’inizio non ci potevo credere), a meno che non siano gesti estremamente automatizzati.

Insomma, una volta acquisite quelle poche informazioni che il nostro cervello può immagazzinare durante il giorno, abbiamo poi bisogno di staccare, di andare in pausa, di spegnere il cervello per consentirgli di rielaborare, e soprattutto di ricordare. Con queste pause, dunque, si creano dei vuoti nel cervello, e sono proprio questi vuoti che consentono a quest’ultimo di attivare la sua “rete per difetto” e di rigenerarsi, di elaborare e consolidare informazioni precedentemente acquisite o apprese, per poter in ultimo ricordare.

È così che possiamo bellamente sollazzare nell’ozio mentre il cervello lavora per noi. È così che possiamo farci un’opinione sul mondo sulla base di informazioni e di esperienze precedentemente sintetizzate. È così che possiamo dormire e riposare realmente, come durante un sonno profondo (che gran bella mossa!). Ed è proprio così, in ultimo, che ci vengono in testa le idee rivoluzionarie, quelle che nascono da connessioni inedite tra spunti prima impensabili da conciliare.

E allora fare pausa senza essere distratti dalle distrazioni, tante pause e basta, tanti vuoti per accogliere e creare collegamenti bizzarri, all’inizio presumibilmente senza senso, poi con un vago tratteggio di indizi sparsi, poi ancora con una certa chiara visione, per ripristinare un senso tacito dentro di me, per fare pace con me stesso.

Al termine dell’evento ho voluto ringraziare personalmente le mie studentesse, perché senza il loro invito, e senza il loro notevole lavoro di interpretazione, non avrei mai tentato di preparare un discorso del genere, né avrei cominciato a raccogliere tutta questa raffica di pensieri che ho cercato di riordinare qui per iscritto, né avrei iniziato a prendere seriamente la pausa, le pause necessarie, quel riposo senza distrazioni come nuovo rivoluzionario motivo di ricostruzione sociale.

Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )

Riferimenti

Lisa Iotti, “8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione”, il Saggiatore, 2020.

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