Per una Moneta che nasca, viva e muoia. Appunti su come rimettere la finanza al servizio dello sviluppo

“il folle è colui che ha perduto tutto fuorché la ragione” G.K. Chesterton

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La crisi nazionale ed europea che stiamo attraversando è dovuta ad un’eccessiva accumulazione di attività finanziarie (moneta e titoli) a scopo speculativo da parte degli agenti economici, che blocca l’espansione del capitale produttivo e impedisce il raggiungimento della piena occupazione. In particolare, il problema riguarda:

  • Le banche europee,  che non canalizzano la liquidità ottenuta dalla BCE verso il sistema produttivo;
  • I cittadini europei più ricchi – a minor propensione al consumo – i cui risparmi si dirigono sovente in investimenti finanziari senza alcuna ricaduta occupazionale;
  • Gli Stati europei, che perseguono cieche politiche di tagli alle spese e aumento di imposte, incrementando il rapporto debito / PIL. Il fallimento delle politiche di austerità fiscale appare clamoroso quando si esamina il caso italiano.  Lo Stato italiano ha infatti registrato, tra il 1991 e il 2012, un avanzo primario cumulato (eccesso di entrate sulle spese al netto degli interessi passivi sul debito) di più di 700 miliardi di euro (dati Istat); eppure lo stock di debito è diminuito solo lievemente e oggi non si riescono a saldare neppure i debiti della pubblica amministrazione (Pa) verso le imprese fornitrici;
  • La classe media che, costretta a sopportare il peso del maggior carico fiscale, taglia le spese e deprime la domanda di beni e servizi;
  • Gli Stati del Nord Europa (Germania e paesi satelliti) che, non accettando di ridurre a livelli fisiologici i loro ingenti surplus commerciali – via espansione della domanda interna –  soffocano la ripresa economica dei paesi periferici (che dipende ormai solo dall’export).

Se la diagnosi dei nostri mali è corretta, allora l’unica soluzione per guarire è sgonfiare il bubbone finanziario.  Si era parlato molto di riforma dei mercati finanziari dopo lo scoppio del primo incendio: il fallimento della Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. Poi più nulla. In compenso, è ripreso molto presto- da parte degli stessi “piromani” di ieri – il  martellante refrain “fate le riforme strutturali!”, che riguardano, manco a dirlo, il mercato del lavoro – da rendere più flessibile – le pensioni, il sistema sanitario (che non possiamo più permetterci), il costo del lavoro (contributi sociali e previdenziali), che non dovrebbe essere più sostenuto dalle imprese ma da tutti i cittadini attraverso le imposte indirette, per loro natura regressive (cioè: meno cuneo fiscale più IVA).

In controtendenza con questa visione, riteniamo sia necessario – se vogliamo veramente uscire dalla crisi- tornare ad occuparci di come restituire al sistema finanziario le funzioni che gli competono: finanziare gli investimenti e facilitare gli scambi commerciali. A questo proposito, è utile richiamare le riflessioni visionarie di alcuni grandi economisti eretici del passato.

UNA MONETA A SCADENZA PER RILANCIARE LA DOMANDA

cover_gesellIl primo personaggio che ricordiamo è Silvio Gesell (1862-1930), semisconosciuto commerciante tedesco di fede socialista, a cui Keynes dedica un paragrafo nella Teoria Generale (cap.23, par.VI, p.547).  Nella sua opera capitale, L’Ordine economico naturale (1916), Gesell descrive una comunità immaginaria dove viene utilizzata una moneta “a scadenza” per scongiurare le crisi da insufficiente domanda aggregata. L’idea è quella di togliere alla moneta l’attributo di riserva di valore, assoggettandola a costi di deperimento simili alle altre merci. Come funziona in pratica? A scadenza mensile, i cittadini devono recarsi presso un ufficio postale e acquistare un bollo di valore molto basso da applicare alle banconote, per mantenerne il corso legale. Il comune utilizza gli introiti per dare lavoro ai disoccupati e sostenerne il reddito.  Il bollo non è altro che un’imposta patrimoniale sulla liquidità, che ha lo scopo di scoraggiare la tesaurizzazione di moneta e di favorire i consumi e gli investimenti, rimettendo in moto l’economia nei momenti di deflazione. La proposta della “stamp money” fu presa in seria considerazione da Irving Fischer, uno dei massimi economisti del Novecento, che giunse a proporla a Rooselvelt nel 1933, in piena Grande Depressione, senza risultato. Nonostante l’ovvia opposizione delle banche centrali, la moneta “ad interesse negativo” è stata applicata successivamente in altre piccole realtà e può essere riproposta con successo anche oggi, come moneta complementare, per sostenere la domanda di prodotti locali. Come scrisse Keynes: ”Ritengo che l’avvenire avrà più da imparare dallo spirito di Gesell che da quello di Marx”(p.549).

L’EUTOPIA DI KEYNES PER CORREGGERE I DIFETTI DELL’EURO

Non è facile, a quanto sembra, per gli uomini comprendere che la loro moneta è un mero intermediario, senza significato in sé, e che scorre da una mano all’altra, è ricevuto e speso, e, quando il suo lavoro è compiuto, sparisce dalla somma delle ricchezze di una nazione” (Keynes, 1923, p.124)

KeynesPIl fantasma di Gesell fa capolino a Bretton Woods, nel 1944; quando Keynes sta progettando l’architettura istituzionale del sistema monetario internazionale del dopoguerra.  Egli ha in mente un sistema valutario a cambi fissi ma aggiustabiliSa che per consentire ai singoli Stati di implementare politiche monetarie e fiscali dirette alla piena occupazione, va favorita la convergenza nelle loro bilance dei pagamenti, il ripianamento delle posizioni debitorie e creditorie. In assenza di un tale meccanismo correttivo, l’espansione della domanda interna in un dato paese manda in rosso i suoi conti con l’estero – le importazioni superano le esportazioni –  costringendolo a finanziare il deficit con afflussi di capitali esteri. Ciò è molto pericoloso: se il debito esterno cresce troppo, gli investitori stranieri possono esercitare ricatti e indebite ingerenze sulle scelte di politica economica del paese, svuotando di senso la stessa democrazia.

Come antidoto alla distruttività dei movimenti di capitali, il Piano dell’economista inglese prevede l’istituzione di una moneta di conto internazionale, il Bancor, emessa da una Camera di Compensazione sovranazionale. Ciascun Paese conserva entro i propri confini la valuta nazionale, ma è intestatario anche di un conto corrente presso la Camera nella nuova moneta, che utilizza per scambiare merci col settore estero. Il meccanismo è il seguente: ogni volta che il Paese A vende al Paese B un bene, la Camera accredita il valore corrispondente in Bancor sul suo conto. Il credito di cui gode A, però, non è solo verso B ma verso tutti i paesi registrati nella Camera.  Così, il Paese A può utilizzare questo attivo per importare un bene da un altro paese C. Alla fine, crediti e debiti dei paesi si compensano: il saldo contabile della Camera è zero e il Bancor letteralmente scompare. Può succedere che un paese finisca le sue riserve in Bancor perché in deficit strutturale di parte corrente (importazioni cronicamente superiori alle esportazioni). In questo caso, deve pagare una multa e ripristinare la competitività, comprimendo la domanda interna. Ma attenzione: nel sistema anche chi ha un avanzo commerciale troppo elevato è soggetto al pagamento di una tassa – che non è altro che un tasso d’interesse negativo sulla moneta, il bollo di Gesell – ed è tenuto a spendere i suoi crediti aumentando le importazioni dagli altri paesi. Il Bancor, infatti, non può essere infinitamente accumulato – dando luogo a debiti che non si ripagano mai – ma ad un certo punto deve essere rimesso in circolo, speso, facilitando il riequilibrio commerciale.  Così l’onere del riaggiustamento è sostenuto insieme dai debitori e dai creditori.

Il Bancor  è a tutti gli effetti una moneta a scadenza, che si decumula: viene creata con un tratto di penna, utilizzata nei commerci e poi, a scambi conclusi, fatta scomparire, grazie al principio della compensazione. La proposta di Keynes, respinta dagli americani a Bretton Woods, fu recepita negli anni ’50 dai paesi europei prostrati dalla guerra, dando vita all’Unione Europea dei Pagamenti; questa fu alla base del grande decollo industriale di quei paesi negli anni Sessanta.  Oggi si potrebbe ritentare quell’esperimento trasformando il sistema di finanziamento delle banche europee, Target 2, in una Camera di Compensazione Comunitaria, per ovviare agli squilibri nelle bilance dei pagamenti dei paesi membri. Con l’Euro a fare le veci del Bancor. Fantascienza? Utopia? No, piuttosto una Eutopia: un “luogo del buon vivere”.

BANCHE PUBBLICHE LOCALI PER RIDARE CREDITO ALLE IMPRESE

thumbs.1Infine, un circuito di finanziamento locale basato sulla compensazione potrebbe essere pensato in favore delle piccole e medie imprese, che ora subiscono la stretta creditizia da parte degli istituti finanziari e il mancato rimborso dei loro crediti verso la Pa. Anche in questo caso, si potrebbe emettere una valuta complementare (o un certificato di credito) costituendo delle banche pubbliche locali, che avrebbero il compito di registrare i flussi di beni scambiati dalle imprese clienti e fornitrici, favorendo il pareggio delle posizioni finanziarie. Funzionerebbe tutto, in scala più piccola (e con le imprese al posto degli Stati), come nella proposta di Keynes.  Inoltre, come illustrato da Massimo Amato e Luca Fantacci nel loro libro “Come salvare il mercato dal capitalismo” (Donzelli, 2012), la valuta locale potrebbe andare a pagare, in parte, i salari dei dipendenti; ciò andrebbe a beneficio dell’economia locale, in quanto la valuta non verrebbe riconosciuta al di fuori di un certo territorio. Questo comporterebbe giocoforza “un sostegno alla produzione e all’occupazione locale e un disincentivo alla delocalizzazione” (p.168). Per i dettagli della proposta rimandiamo al libro di Fantacci e Amato (pp.157-191). Qui basti ricordare che con un esperimento analogo – l’emissione di certificati garantiti dalla Banca Centrale che venivano fatti circolare tra le imprese – Hjialmar Schacht risollevò l’economia tedesca negli anni trenta.

PER CONCLUDERE: L’UNICA RIFORMA STRUTTURALE DI CUI ABBIAMO BISOGNO

Le considerazioni appena svolte smentiscono il ritornello che risuona spesso in questi ultimi anni: non abbiamo più risorse, siamo condannati, da un destino cinico e baro, ad un futuro di privazioni e di stenti. Al contrario: ci sono un sacco di soldi nel sistema, solo che rimangono fermi o vanno a finire dove non si trasformano in lavoro e ricchezza comune ma in rendita individuale. Perciò, l’unica vera riforma strutturale di cui abbiamo bisogno – non più rinviabile – non è quella del lavoro, non è quella previdenziale, non sono le liberalizzazioni: è quella del sistema finanziario, da rimettere al servizio dello sviluppo economico e civile. L’imperativo è ridare credito. Che significa: far rinascere e diffondere la fiducia, il carburante essenziale per la crescita. Nonostante i tempi che corrono, dobbiamo essere cautamente ottimisti. In fondo, là di fronte a noi, a bloccare la via non ci sono altro che un po’ di anziani signori, stretti nei loro abiti talari, che hanno bisogno di essere trattati con un po’ di amichevole irriverenza e buttati giù come birilli (Keynes, 1929).

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