Il Capitalismo tra crisi e trasformazione

Michael-Hacker-Capitalism
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In “Il Capitalismo e lo Stato. Crisi e trasformazione delle strutture economiche” (Castelvecchi, 2014) , Paolo Leon indaga le trasformazioni di lungo periodo del capitalismo contemporaneo, dal New Deal rooseveltiano alla rivoluzione liberista del duo Reagan-Thatcher, culminata nella crisi del 2007-08. La prospettiva d’analisi è centrata sul rapporto, dialettico, tra Stato e capitalismo, che ha determinato, nei periodi considerati, cambiamenti significativi nell’architettura delle istituzioni economiche.

L’ipotesi da cui muove il ragionamento di Leon è che il capitalismo sia costituito da individui e imprese non consapevoli degli effetti macroeconomici delle loro scelte; da qui la ricorrenza di squilibri e crisi nel sistema. Solo lo Stato può, se la politica glielo consente, “conoscere gli effetti macroeconomici delle proprie scelte e di quelle dei capitalisti” (p.57), e quindi preservare il sistema dall’autodistruzione.  Questo è il punto di maggior attrito con la teoria economica dominante – quella neoclassica – che invece rappresenta il sistema economico come un insieme di individui che, massimizzando la propria utilità o profitto nelle loro scelte, conducono sempre al miglior risultato sociale possibile, in termini di efficienza e di equità. A turbare quest’ordine spontaneo (Hayek) sarebbero soltanto interventi “invasivi” da parte dei governi o dei sindacati, il cui campo d’azione andrebbe per questo drasticamente limitato.

FINE DEL LAISSEZ FAIRE: L’ERA DEL CAPITALISMO ROOSEVELTIANO 

Il ripudio delle teorie e pratiche neoclassiche da parte dei maggiori governi occidentali – democratici e non – avviene negli anni Trenta del Novecento, a seguito della Grande Depressione, e prosegue  anche nel dopoguerra, fino allo schock petrolifero degli anni Settanta. Vengono gettate le basi istituzionali di quello che Leon chiama capitalismo rooselvetiano: gli Stati – e le banche centrali –  si danno come obiettivo di politica economica la crescita in piena occupazione; ciò richiede l’abbandono del laissez faire e la gestione attiva della domanda aggregata (consumi, investimenti, esportazioni nette). Lo Stato assicura alle imprese i mercati di sbocco delle loro merci attraverso le seguenti misure:  a) imposizione fiscale progressiva e rafforzamento del ruolo del sindacato nella contrattazione salariale collettiva –  il Wagner Act  – che migliorano la distribuzione del reddito e sollecitano la propensione al consumo di una vasta platea di individui (la classe media); b) investimenti pubblici in infrastrutture, nei settori strategici e di base, con effetti moltiplicativi sul reddito nazionale, sulla domanda e sui profitti delle imprese.  Opera qui una legge macroeconomica sconosciuta al singolo capitalista: è la spesa che genera il risparmio, l’investimento che causa il profitto, non viceversa. Oltre l’imposizione fiscale, è la banca centrale che finanzia il settore pubblico, non i mercati finanziari. Inoltre, con gli accordi di Bretton Woods (1944) il commercio mondiale viene liberalizzato, ma persistono controlli ferrei da parte degli Stati nazionali sui movimenti di capitale.

Due importanti riforme sono introdotte in questo periodo. Una è la separazione per funzioni del settore bancario (Glass Steagall Act): le banche di credito ordinarie agiscono come public utilities,  raccogliendo e prestando denaro a breve termine, mentre  le società finanziarie (banche d’investimento, assicurazioni, etc) operano sui mercati dei titoli. In questo modo, la speculazione non causa instabilità sistemica e  il moltiplicatore monetario – per cui “l’aumento degli impieghi di ciascuna banca fa crescere i depositi di tutte le altre” (p.102) – ha i suoi massimi effetti sullo sviluppo dell’economia “reale”.  L’altra è il Welfare State : specie nell’Europa occidentale, educazione e sanità vengono riconosciuti come diritti di cittadinanza, mentre pensioni e sussidi di disoccupazione sono erogati con le imposte dei soggetti in attività. Breve: “Il capitalismo e lo Stato hanno costruito un compromesso, per il quale il mercato finanziario e quello del lavoro sono regolati per evitare che producano crisi e la politica economica assicura la domanda effettiva” (p.120).

ASCESA E CADUTA DEL CAPITALISMO NEOLIBERISTA

L’ordine economico rooseveltiano- e il compromesso tra Stato e capitalisti che ne derivava – è sconvolto da due “cigni neri”: le crisi petrolifere (1973-79) e la fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods, che porta alla svalutazione del dollaro e al collasso del cambio fisso tra le valute (1971). Il processo di crescita economica rallenta e  divampano inflazione e disoccupazione. Nella cultura economica dominante, il paradigma keynesiano perde consenso a vantaggio di quello monetarista e neoliberista, che rispolvera alcuni evergreen del pensiero conservatore: Il Welfare State assistenzialista e l’alta pressione fiscale necessario a mantenerlo soffocano l’intrapresa individuale;  la politica economica espansiva di banche centrali e governi “spiazza” l’investimento privato e causa iperinflazione; esiste un tasso di disoccupazione “naturale” che può essere abbattuto solo attraverso riforme strutturali dal lato dell’offerta, come la riduzione delle aliquote fiscali, la diminuzione dei sussidi di disoccupazione e la deregolamentazione del mercato del lavoro.

In this June 23, 1982 file photo, Britain's Prime Minister Margaret Thatcher gestures with her pen as she answers a reporters question during a news conference at the United Nations. Ex-spokesman Tim Bell says that Thatcher has died. She was 87. Bell said the woman known to friends and foes as "the Iron Lady" passed away Monday morning, April 8, 2013. (AP Photo/File)
In this June 23, 1982 file photo, Britain’s Prime Minister Margaret Thatcher gestures with her pen as she answers a reporters question during a news conference at the United Nations. Ex-spokesman Tim Bell says that Thatcher has died. She was 87. Bell said the woman known to friends and foes as “the Iron Lady” passed away Monday morning, April 8, 2013. (AP Photo/File)

I governi conservatori anglo americani di Reagan e Thatcher fanno propria questa retorica e iniziano l’opera di demolizione e ricostruzione delle istituzioni economiche del capitalismo, completata successivamente  da quelli progressisti. Lo Stato diventa così il comitato d’affari dei capitalisti. Si liberalizzano i movimenti internazionali dei capitali, così da ricomporre i margini di profitto delle imprese, erosi dal crescente potere sindacale e fiscale. Nel sistema bancario vengono abbattute le leggi ispirate al Glass Steagall Act, che imponevano una rigida separazione tra attività commerciali e d’investimento da parte delle banche. Le banche centrali smettono di coprire i fabbisogni finanziari dei governi, e diventano garanti della stabilità dei prezzi. Si crea così un grande mercato dei titoli pubblici, e i bilanci degli Stati sono limitati dalla capacità di piazzarli e pagarne gli interessi con l’imposizione fiscale, “se questa ha raggiunto un limite, al di là del quale viene a mancare il consenso politico e/o il gettito non cresce al crescere del PIL, l’intervento pubblico perde la sua natura macroeconomica, e il suo compito o è da Stato minimo (difesa,sicurezza, giustizia) o è redistributivo” (p.124). Le funzioni pubbliche vengono ridotte drasticamente: i servizi pubblici sono privatizzati o perdono la loro funzione universalistica (gli utenti sono soggetti a tariffe, le imposte vengono sostituite dalle tasse), le aziende pubbliche, quando non sono dismesse, vengono comunque trasformate in società per azioni quotate sui mercati. Il mercato del lavoro viene ferocemente liberalizzato, e si forma una concorrenza tra lavoratori per i pochi posti disponibili: domina l’ideologia del merito e del capitale umano, a cui Leon dedica pagine corrosive (pp. 161-163) e che porta, come nel calvinismo, “ad attribuire ai lavoratori il loro impoverimento relativo” (p.161) e a venerare il successo del self made man. La disoccupazione, inoltre, è attribuita alla pigrizia del disoccupato nel cercare lavoro (p.171); per questo le agenzie pubbliche per l’impiego sono sostituite da aziende private e la tutela passiva del disoccupato, attraverso i sussidi, è sostituita in parte dalla formazione professionale.

Queste trasformazioni  istituzionali hanno effetti negativi sulla domanda e quindi sulla crescita del prodotto globale. La quota dei salari sul reddito lordo, nei paesi occidentali, cala di circa 15 punti percentuali tra il 1979 ad oggi (p.186), deprimendo i consumi delle classi medie e quindi le vendite delle imprese; il taglio degli investimenti pubblici riduce reddito e occupazione attraverso il meccanismo del moltiplicatore keynesiano. A questo punto, per scongiurare il rischio  di una crisi di sovrapproduzione a cui il nuovo capitalismo non sarebbe sfuggito, ci si inventa una nuova fonte di sostegno alla domanda aggregata: il debito privato. Gli enormi flussi finanziari internazionali sono utilizzati dalle banche americane per accrescere i mutui alle famiglie – il cui reddito è in declino – stimolando così la crescita  del settore meno esposto alla concorrenza internazionale: quello immobiliare. La crescita dei prezzi delle case gonfia la ricchezza delle famiglie e si trasforma in maggiore consumo di beni da parte di quest’ultime; stimolando l’investimento delle imprese  – che cominciano a loro volta ad emettere titoli di debito sui mercati – e l’occupazione.  I crediti che le banche hanno in bilancio sono trasferiti a società fittizie creato allo scopo e venduti, sotto forma di titoli “sicuri” un po’ a tutto il mondo. Le banche europee, per esempio, fanno incetta di questi titoli, detti “salsiccia” perché dentro c’è un po’ di tutto. Siamo in quella che Leon chiama economia del leverage: nelle scelte economiche di famiglie, banche e imprese, lo stato patrimoniale (il valore di attività e passività) assume un’importanza maggiore del conto economico (ricavi e costi). Finché il valore delle attività (case o titoli) che hanno acquisito cresce più  delle rate di ammortamento del debito che hanno contratto, tutto va bene. Ma quando la bolla immobiliare e finanziaria scoppia, le insolvenze si moltiplicano, con le conseguenze economiche e sociali che conosciamo bene.

POLITICHE ANTICRISI E FUTURO DEL CAPITALISMO

Le politiche anti crisi sono state all’insegna di un keynesismo spurio, con l’intervento degli Stati per salvare dalla bancarotta il sistema bancario statunitense ed europeo, e l’abbondante liquidità pompata dalle banche centrali sui mercati finanziari.  Tuttavia, a sei anni dal crollo della Lehman Brothers , solo Stati Uniti e Giappone  –  i cui governi hanno aumentato deficit e debito con un mix di sgravi fiscali e maggiori spese pubbliche – danno segnali di una timida ripresa, mentre l’Unione Europa è vittima del rigore teutonico e degli immensi squilibri commerciali creatisi tra paesi settentrionali e meridionali. Si registra inoltre il rallentamento del tasso di crescita dei paesi emergenti (BRICS), a causa del calo delle esportazioni verso i paesi occidentali e del rialzo del prezzo delle materie prime, soggette a forti speculazioni. In generale, la crescita mondiale resta anemica per carenza di domanda effettiva, a causa dell’iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza e del processo di dis-indebitamento di famiglie e Stati. Una stagnazione che, secondo economisti come Paul Krugman e Larry Summers, potrebbe protrarsi per lungo tempo. Lo Stato, certo, potrebbe giocare ancora un ruolo propulsivo, aggiungendo domanda attraverso investimenti in settori innovativi (come la green economy) e redistribuzione fiscale; ma gli viene precluso – specie nel Vecchio Continente – dall’ideologia del pareggio di bilancio e delle riforme supply side. Inoltre, la necessaria riforma della sovrastruttura finanziaria incontra un ostacolo insormontabile negli interessi delle lobby del settore. Lo testimoniano l’annacquamento della Volker rule negli USA, che re-introduce la separazione tra banche di credito ordinario e d’investimento, e le difficoltà che sta incontrando l’Europa nell’attuare le proposte del rapporto Liikanen..

In ultima analisi, c’è il rischio che si vada verso un capitalismo mercantilista o nazionalista, in cui ciascun Paese cerca di recuperare competitività  attraverso politiche di dumping fiscale, sociale e ambientale: un gioco a somma negativa. L’’Eurozona a trazione tedesca sta assecondando questa deriva. D’altro canto, Leon auspica che si arrivi ad una qualche forma di gestione coordinata della domanda globale, attraverso: potenziamento dei sindacati e standard salariali minimi introdotti a livello internazionale dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, riforma del commercio internazionale e della finanza, istituzione di una nuova moneta di riserva sovranazionale che sostituisca il dollaro, un maggior ruolo dei paesi emergenti nella risoluzione degli squilibri commerciali mondiali. Quale dei due assetti assumerà il capitalismo futuro? La risposta soffia nel vento.

Federico Stoppa

Editing grafico a cura di Francesco Paolo Cazzorla

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