
Per introdurre il concetto di identità è necessario tenere presente la sua natura squisitamente interdisciplinare, in quanto presuppone sia una dimensione sociologica che una psicologica. Gli aspetti più sociologici dell’identità riguardano le nostre appartenenze a famiglie e a gruppi. Sentiamo il bisogno di affiliarci ad una collettività omogenea per alcuni tratti, come studenti di una certa materia, appassionati di un particolare genere musicale, professionisti ed appassionati di un qualche genere di sport. Sentirci parte di qualcosa di più grande di noi, in empatica armonia con gli altri è essenziale per la definizione di sé. All’interno di queste appartenenze vi è infatti un rispecchiamento reciproco tra le persone, fondamentale per la costruzione delle identità. Nella migliore delle ipotesi, ci vengono riconosciute (e noi riconosciamo negli altri) attitudini, interessi, passioni e impegni che vengono cristallizzati in un “ruolo” implicito o esplicito all’interno di un certo gruppo. Tuttavia si può ricevere un ruolo anche in base ad anonimi bisogni istituzionali. Nel bene e nel male, tutto ciò resta di fondamentale importanza per la definizione di noi stessi, ma non è certo tutto.
L’identità è anche connessa con il modo personale in cui ognuno di noi fa esperienza nella vita di tutti i giorni. La nostra particolare prospettiva sul mondo ci deriva dal nostro temperamento e dal nostro carattere. Possiamo immaginare il carattere come una materia plastica, modificabile dalle influenze con le persone più significative della nostra vita, e il temperamento come una fibra interna più dura, e presente già prima della nascita. Alcune madri riconoscono il temperamento dei figli quando ancora li portano in grembo: alcuni bambini scalciano e si agitano ripetutamente, altri rimangono per tutto il tempo quasi immobili, immersi in uno stato di quiete. Il temperamento rappresenta quindi un limite alla socializzazione dell’individuo, nel senso che la persona non può essere plasmata infinitamente della cultura, se non al prezzo di spezzare la propria sensibilità intrinseca. Accanto al bisogno di sentirsi in armonia con gli altri, ognuno di noi sentirà un bisogno di autonomia che risponde alle spinte del suo nucleo più intimo. Carl Gustav Jung ha parlato in questo senso di “individuazione”, un vero e proprio travaglio attraverso cui la persona cerca di realizzare la propria natura.
In linea con i principi della psicologia dialettica, espressi nel libro “Volersi male” di Nicola Ghezzani, l’identità si configura come il frutto di una continua mediazione tra i bisogni di appartenenza e di individuazione, i quali possono al limite contrastare fortemente tra loro, oppure trovarsi in armonia. Quante volte ci è stato chiesto di aderire a un ruolo che abbiamo sentito in disaccordo con noi stessi? Quante volte invece l’incontro con l’altro è stato determinante per poterci esprimere a pieno e sentirci liberi? Ognuno di noi si auspica e lotta per essere riconosciuto dagli altri e trovare uno spazio il più possibile consono agli aspetti autentici del proprio sé. Raggiungere un equilibrio perfetto tra questi due poli sarebbe qualcosa di utopico, e nella nostra vita ci troviamo sempre a dover mediare o da una parte o dall’altra, tra esigenze di appartenenza e il nostro bisogno di autonomia.
Ma come si sviluppano le identità nella realtà socio-storica che stiamo attraversando? Per rispondere a questa domanda è necessario mettere a fuoco i macrocambiamenti che la società occidentale ha attraversato a partire dagli anni ’50 del secolo scorso. Risalgono a quel periodo le teorie dello psicologo tedesco naturalizzato statunitense Erik Erikson sulla formazione dell’identità. Quest’ultima veniva concepita come qualcosa che si acquisisce al termine dell’adolescenza, per essere poi mantenuta stabilmente per il resto della vita. Se si contestualizzano le ricerche di Erikson, ci si accorge che le sue osservazioni erano basate esclusivamente sulla società nordamericana degli anni ’50 e ’60, in particolare sulla cosiddetta “classe media bianca”. Il percorso che le persone seguivano in quel contesto era effettivamente molto stabile, o almeno questa era la norma che le persone adottavano come metro di paragone. Adolescenza ed età adulte erano due fasi distinte e riconoscibili sia nella teoria di Erikson, che nella realtà in cui quella teoria aveva preso forma. Terminata l’adolescenza, soprattutto per quanto riguarda i giovani di sesso maschile, ci si aspettava prima di tutto il raggiungimento dell’indipendenza economica, che sanciva l’ingresso nell’età adulta. Il lavoro era il fulcro dell’identità del giovane adulto, in quanto rappresentava l’appartenenza più importante con la quale ci si collocava nella società.
Va da sé che nel corso del tempo le cose sono molto cambiate. Le trasformazioni economiche e sociali intervenute negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso hanno reso possibile la comparsa di una tipologia di popolazione del tutto inedita; per inquadrarla, tra gli altri, lo psicoanalista tedesco Werner Bohleber ha utilizzato il concetto di post-adolescenza. Il post-adolescente non completa più il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, raggiunge sì un’indipendenza intellettuale, sociale e sessuale, senza però arrivare ad un’indipendenza economica. In questa fase la maturità “è determinata in base al criterio della partecipazione competente alla sfera dei consumi”.
Bohleber sottolinea l’intrinseca ambivalenza della post-adolescenza, che in molti casi si protrae oltre i trent’anni. L’ambivalenza consiste nel fatto che questa fase, in cui l’identità non è “chiusa” ma aperta alle possibilità, può favorire la creatività o al contrario sfociare in un vicolo cieco dello sviluppo psicosociale. In passato era più facile che le persone si impegnassero in maniera esclusiva sia nel lavoro che nelle relazioni personali, oggi i giovani non si lasciano sfuggire le occasioni, vogliono plasmare continuamente la loro vita. L’identità in questo senso non è più qualcosa che ci definisce in maniera stabile, ma è un progetto sempre aperto alle possibilità e ai rischi. Può succedere così che la ricerca dell’identità diventi un processo spalmato sull’intera esistenza.

Questa tendenza del comportamento è stata resa possibile dagli sviluppi economici e tecnici che fin dagli anni ’70 hanno oggettivamente moltiplicato le possibilità per gli individui, sia in termini di scelte lavorative che di stili di vita e ricerca del partner. Un tale processo ha contribuito al dissolvimento dei ruoli stabili, percepiti più che altro come fardelli. Per molti è stata davvero l’occasione di mettere in gioco la parte più autentica e autonoma di sé, liberandosi dai lacci delle appartenenze tradizionali. L’individuo ha potuto esplorare nuove affiliazioni, muovendosi liberamente tra le molte e diverse subculture, tra i movimenti politici e sociali che costituiscono le società moderne. Le condizioni socio-storiche hanno reso possibile per molti la ricerca di un ambiente di appartenenza più affine al proprio sentire, rispetto a quello in cui ci si trovava collocati per nascita. In generale la mobilità sociale, tipica delle società industrializzate, ha permesso agli individui di sviluppare capacità e talenti, raggiungendo condizioni di vita più elevate. In questo senso le identità, come i gruppi sociali, sono diventate fortemente complesse e contraddittorie, se non in alcuni casi frammentate. La varietà e la moltitudine di stili di vita ha costituito contemporaneamente un’opportunità e un rischio per l’adolescente in cerca di un’identità.
In che modo è stato veicolato l’entusiasmo di ricercare nuove strade per costruire la propria vita? Una generica aspettativa presente nella nostra società vuole che l’individuo si realizzi e che lo faccia da solo, al limite nell’isolamento. A partire dagli ultime decenni del secolo scorso, realizzare se stessi è divenuta paradossalmente una richiesta esterna, piuttosto che il frutto di proprie spinte interne. Ancor più paradossale è il fatto che questa individuazione sia conforme a certe norme, per cui le persone seguono identità standardizzate proposte dai media e dalla pubblicità.
Gli individui non solo si sentono in dovere di seguire certi modelli “vincenti”, ma lo fanno nella più totale illusione di stare sviluppando qualcosa di personale, per una loro scelta. Prosaicamente questa ideologia appare più in linea con gli interessi del mercato che con i bisogni autentici della gente. Le istituzioni e le aziende si aspettano un individuo flessibile, sempre disponibile al cambiamento e alla “crescita”, come quello descritto da Richard Sennet. Il desiderio di individuazione è diventato un valore culturalmente riconosciuto, l’autorealizzazione è un obbligo sociale. Secondo Alain Ehrenberg questa richiesta implicita ed esplicita è alla base dell’aumento delle patologie depressive, che rappresentano letteralmente “la fatica di essere se stessi”. Le società contemporanee esigono dalla persona un raggiungimento di prestazioni elevate e un miglioramento personale costante.
Il sociologo Ulrich Beck ha mostrato chiaramente come il mito della costruzione della propria vita sia sostenuto dall’illusione del potere e delle scelte personali, tipica delle società occidentali. E’ stato enfatizzato a dismisura il valore dei propri desideri e delle proprie capacità, lasciando in ombra il peso che le condizioni sociali e le relazioni con gli altri hanno nel poterli realizzare. Questa visione fa sì che l’individuo si senta completamente artefice della propria vita. L’individuo occidentale è diventato perciò attivo, inventivo e scaltro, ricercando l’originalità e la creatività ad alti costi. Citando Ulrich Beck, accade così che “l’eventuale fallimento divenga fallimento personale e che dunque non possa essere vissuto come esperienza di classe, o ascritto a una «cultura della povertà». La relazione che si istituisce tra propria vita e proprio fallimento comporta che anche le crisi sociali (per esempio, i periodi di disoccupazione di massa) vengano scaricate sui singoli che li percepiscono come rischi individuali. In altre parole, alcuni problemi di portata sociale possono essere direttamente ricondotti a disposizioni psichiche, a sensi di colpa, paure, conflitti e nevrosi individuali. Viene così delineandosi un nuovo, paradossale ed immediato rapporto tra individuo e società: una contiguità di crisi e malattia, per cui le crisi sociali appaiono come crisi individuali. Di conseguenza, il carattere sociale delle crisi stesse (che è in grado di adempiere a una funzione di mediazione tra società ed individuo) viene ignorato. Nella società moderna viene così trascurato ciò che invece è al centro del nostro interesse, ossia l’architettura sociale della propria vita tra individualizzazione e globalizzazione, tra attività e assegnazione di obiettivi che non solo non è l’individuo a scegliere, ma che si pongono interamente fuori dalla sua portata.”
Ciò che è importante sottolineare è la dimensione dialettica della costruzione dell’identità. Come abbiamo visto, quest’ultima si delinea come una mediazione tra “interno” ed “esterno”. La costruzione dell’identità è sempre vincolata contemporaneamente a ciò che offre il periodo storico e alle proprie disposizioni personali. Siccome la realtà è in continua trasformazione, quelle che ieri apparivano soluzioni “giuste”, si potrebbero rivelare “sbagliate” domani o viceversa. Quali sono allora oggi le condizioni e le opportunità in questa Italia attraversata da una crisi economica e sociale? In generale si può affermare che sono aumentati i rischi e diminuite le opportunità. La disuguaglianza è cresciuta dagli anni ’80 ad oggi, e la società appare più stratificata, opponendo più resistenza alla mobilità sociale. Dopo una lunga formazione, molti di noi sono costretti a trasferirsi all’estero, e in fondo è il paese intero che ci rimette. Le relazioni con gli altri e le appartenenze giocano un ruolo enormemente importante nella nostra vita: certi incontri (nel bene e nel male) contribuiscono a fare di noi quello che siamo, a volte più di quanto siamo disposti ad ammettere. In questo momento è necessario guardare al mito dell’individuo che si plasma da sé (e in maniere totalmente omologata e impersonale) con un sano disincanto, e rendersi consapevoli dell’importanza che gioca la dimensione socio-storica e relazionale nella costruzione della propria vita. Se si vuole agire in maniera ottimale sulla realtà ed aumentare le proprie capacità di cambiamento, è essenziale essere lucidi e valutare, sia gli aspetti più autentici di sé, sia il contesto in cui ci si muove.
Filippo Gibiino
Editing grafico a cura di Edna Arauz
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Riferimenti
Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, 1999
Nicola Ghezzani, Volersi male. Masochismo, panico, depressione. Il senso di colpa e le radici della sofferenza psichica, Franco Angeli, 2002
Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, 2001
Ulrich Beck, Costruire la propria vita, Il mulino, 2008
Werner Bohleber, Identità, trauma e ideologia. La crisi d’identità della psicoanalisi moderna, Astrolabio, 2012