Dicembre 1963: l’alba del primo esecutivo di Centrosinistra “organico”. Il Partito Socialista entra per la prima volta nella stanza dei bottoni assieme alla DC. È un’occasione storica per cambiare il Paese. In quella straordinaria temperie politica e culturale, due giovani economisti di area liberalsocialista, Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini, pubblicano un libretto dal titolo Idee per la programmazione economica, una bussola utile ancora oggi per orientarsi tra riformismi autentici e posticci.
Per Sylos e Fuà, un programma di riforme volte a modificare la struttura economica del Paese deve avere tre pilastri: 1) una fotografia attendibile della situazione attuale; 2) la definizione di obiettivi di medio-lungo periodo (15 anni almeno); 3) gli strumenti operativi per realizzarli.
La diagnosi. Nel decennio 1952-62, la crescita del PIL pro capite italiano era stata tumultuosa – 6% all’anno – ma squilibrata a) nell’allocazione delle risorse per settore produttivo, b) nella distribuzione territoriale dello sviluppo, c) nella struttura dei consumi, d) nella distribuzione del reddito.
Il mercato del lavoro era segnato dal dualismo: troppe persone rimanevano sottoccupate nel settore dei servizi, segnatamente nel commercio. L’inefficienza nella rete di distribuzione dei beni, in particolare, manteneva alti i margini di profitto e frenava la discesa dei prezzi al dettaglio e, dunque, alterava le ragioni di scambio intersettoriali a svantaggio dell’industria, settore a più alta produttività media. I costi di tale inefficienza erano scaricati sui consumatori, specie quelli meno abbienti.
L’opulenza dei consumi privati coesisteva con lo squallore dei consumi pubblici, quali scuola, sanità, edilizia popolare, trasporti urbani ed extraurbani. Effetto, questo, dall’elevata disuguaglianza nei redditi personali; dell’emulazione da parte dei meno abbienti dello stile di vita dei più ricchi, fomentata dalla pubblicità; da una pubblica amministrazione non all’altezza del suo ruolo.
Gli obiettivi di medio-lungo termine. La piena occupazione delle forze di lavoro al più alto livello di rendimento e remunerazione possibile (quindi “eliminando nella misura del possibile l’occupazione precaria”, p.13). Lo sviluppo prioritario di alcune tipologie di consumi sociali che riguardavano l’istruzione, la ricerca scientifica, la pianificazione urbanistica, la manutenzione del territorio. Il miglioramento della distribuzione personale dei redditi e l’aumento della quota dei redditi da lavoro sul reddito nazionale. L’arresto dello spopolamento di alcuni territori e la congestione di altri, ridistribuendo coerentemente tra questi le attività produttive con investimenti adeguati.
Gli strumenti operativi. Una riforma fiscale ancorata a criteri di progressività sostanziali, che sfrondasse le esenzioni, che semplificasse norme e procedure, che combattesse l’evasione. Si doveva comporre prevalentemente di un’imposta personale sul reddito e una sui redditi di impresa, con delle precauzioni. Nel caso dell’imposta sul reddito, si suggeriva la tassazione progressiva del solo reddito speso, per favorire l’accumulazione di capitale produttivo; mentre l’imposta sulle società doveva discriminare tra profitti mandati a riserva e reinvestiti e quelli distribuiti, pesando maggiormente su quest’ultimi.
La politica dei redditi. Veniva esplicitata la golden rule da rispettare per favorire un’equa ripartizione del prodotto sociale tra capitale e lavoro evitando spirali inflazionistiche: i salari devono aumentare al tasso di crescita della produttività del lavoro; se questo non avviene, i profitti ( e le rendite) crescono troppo relativamente ai salari, e il peggioramento nella distribuzione del reddito deprime i consumi e riduce gli stessi investimenti, frenando produttività e sviluppo.
Concludeva il quadro la riforma urbanistica. Fuà e Sylos denunciavano un distacco progressivo tra sviluppo economico e pianificazione territoriale. La speculazione sulle aree agricole e urbane aveva fatto lievitare i prezzi degli alloggi e degli affitti e taglieggiato il salario reale. Si incoraggiava la riforma, poi abortita, dell’esponente DC Fiorentino Sullo che prevedeva l’espropriazione preventiva delle aree di espansione e la riassegnazione del diritto edificatorio ai privati dopo un’asta pubblica; meccanismo che avrebbe tagliato alla radice la rendita fondiaria parassitaria e arrestato la speculazione.
Se proposte nel contesto attuale, riforme di tale portata scatenerebbero l’anatema degli uomini della pratica al governo e dei loro scribacchini; come all’epoca caddero sotto il fuoco incrociato del liberismo economico di matrice confindustriale e delle velleità rivoluzionarie della sinistra comunista 1.
Il lettore potrà nondimeno misurare la distanza intellettuale che separa questa cultura riformista da quella dei nostri giorni, fatta di tecnocrati senza visione e spessore, intenti ad appiccicare impunemente l’etichetta di riforme strutturali sopra l’ennesimo tentativo di svalutazione del lavoro.
NOTE:
1“Ci fu un boicottaggio vero e proprio[..] Ci trovammo di fronte una pubblica amministrazione disgraziata, una destra economica ostile che scambiava la Programmazione per la pianificazione, la radicale diffidenza della sinistra e della Cgil che avrebbe potuto offrire maggiore aiuto se avesse messo da parte le farfallette rivoluzionarie” (P. Sylos Labini, Un Paese a civiltà limitata, 2006, pp.86-87)
Federico Stoppa