
Qualche settimana fa, sono stato invitato all’università – l’università messicana dove lavoro – per tenere un discorso ad un evento di interpretazione simultanea, organizzato dai miei studenti. Il mio compito era “semplicemente” quello di parlare in italiano; quello degli studenti di interpretare in spagnolo tutto quello che dicevo, simultaneamente appunto. Il pubblico – per lo più genitori e personale amministrativo dell’università, assieme a qualche sporadica presenza della stampa – ascoltava in sala curioso, munito di cuffie. Dentro queste cuffie, si ascoltavano le voci degli studenti – ubicati a parte in una sala protetta da vetri non specchiati –, che cercavano di rincorrere le parole dei relatori e dargli un senso, un’interpretazione personale nella loro lingua. Assieme a me c’erano altri due relatori stranieri; anch’essi parlavano in altre lingue e l’esercizio per gli studenti era praticamente lo stesso.
Per parte mia, ho cominciato a parlare di me: chi sono, da dove vengo, quale percorso mi ha portato fino a qui; ho parlato quindi con orgoglio dell’università più antica del mondo occidentale, “l’Alma mater studiorum”, che è nostra, che è italiana, e dove ho avuto la fortuna di formarmi. Ho parlato di sfruttamento del lavoro, di dignità del lavoro, qualcosa che sembra già anacronistico, passato ormai fuori moda. Ho parlato della nostra bellissima Costituzione, dei diritti che tutela e su cui si fonda, citando l’art. 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. […] Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Gli stessi diritti che, in questi anni scellerati, sono stati calpestati e demoliti in lungo e in largo, mentre noi ce ne stavamo qui, a ficcanasare nelle vite degli altri e a neutralizzarci, a perdere tempo e a non saperlo come utilizzare, sui nostri sempre più fighi e protesici cellulari.
Per questo ho invitato timidamente la platea a riflettere su un’espressione molto comune, molto in voga quando c’è da motivare qualcuno, e cioè quella che dice “pensa fuori dagli schemi!”. Ho sostenuto – penso efficacemente – che oggi questa espressione perda di significato nella sua globalità, non solo perché semplicemente gli schemi forti non esistono più, essendo morti e sepolti, ma perché in maniera se vogliamo più elaborata la “costrizione alla libertà”, – il fatto cioè di essere liberi a tutti i costi, e di costruirsi un futuro in maniera indipendente senza l’aiuto di nessuno (pura fantasia che è riuscita però ad imporsi come l’unica ideologia dominante sull’intero pianeta) – questa ambita e allo stesso tempo soverchiante “libertà”, dicevo, non ha prodotto altri schemi “così innovativi” da resistere nel tempo, ma si è limitata a ridurre l’individuo ad un misero schema isolato, liquido e fugace (in balìa, insomma, di mercati capricciosi, effimeri e seducenti); uno schema, in definitiva, che fa riferimento ad un sé prevalentemente smarrito, senza punti di riferimento.
Per questo ho voluto – e ho cercato di – cambiare i termini della questione, invitando gli studenti e la platea tutta a fare mente locale su un’altra espressione, che, sia chiaro, si potrebbe adottare benissimo controvoglia, ma servirebbe a rivoltare come un calzino questi tempi sbandati: “pensare fuori dagli schermi”. Questi schermi luminosi (per ogni dove e per ogni occasione) rendono la realtà virtuale centomilavolte più attraente della realtà propriamente detta, e sono inoltre molto utili a tutti, questo è ormai indubbio (possiamo essere in contatto con chiunque vogliamo quando vogliamo; possiamo costruire e mantenere relazioni a distanza che sono importanti per la nostra vita); ma stanno trasformando inesorabilmente i nostri comportamenti, rendendoci arrendevoli, docili, con una (in)coscienza sul mondo che si presenta fluida, tentacolare, ma poco approfondita: il loro uso spropositato ci sta togliendo pian piano la capacità di ricordare qualcosa, semplicemente perché sappiamo che con dei banali movimenti delle dita quel qualcosa sarà già lì, pronto per noi, “a portata di mano”, e quindi alla fine: con tutta questa potenzialità mnemonica “esterna”, a che serve “internamente” ricordare?
Molto spesso però succede che, quando stacco gli occhi dallo schermo, all’improvviso l’elettrocardiogramma del mio pensiero (critico) si riattiva, la mia memoria mette la prima, la seconda la terza e così via, il mio cervello non è più in folle, l’inquinamento informativo scompare, come la brina sul parabrezza non appena un movimento entra in circolo in un autoveicolo, seppur quest’ultimo si presenti come un catorcio scassato. E così dall’assenza nasce la potenza, dalla mancanza la vicinanza, creando le condizioni ideali per lasciare germogliare la facoltà di notare quello che quotidianamente si fa vedere: sotto al naso, a pochi spasmi da me. In questo modo, potremmo sottrarci agevolmente dal controllo panottico che opera su di noi il digitale dei mercati, preservando i momenti anonimi, dando manforte ai momenti significativi che non diventano in questo modo segreti, ma diventano pericolosi agli occhi del potere perché sfuggono alla “logica normale” dell’evento quotidiano sugli schermi.
Le allusioni in questa sede al linguaggio delle macchine non sono casuali. Molto spesso le utilizziamo senza accorgercene per far riferimento a comuni routine (“attacco” e “stacco” dal lavoro; sono “stressato”; “devo staccare un po’ la spina”; “devo ricaricare le batterie”, etc). E come già sappiamo, il linguaggio, seppur mutevole, ha un ruolo preponderante nella creazione – e nel cambiamento – della realtà che ci circonda. Sta tutto nel porre dei limiti, dei punti di demarcazione: chi è la macchina, chi è l’Umano? Dove termina l’una, e dove inizia l’altro? È la macchina che serve l’Umano o viceversa? Forse, se ci fermassimo di più sulla pura utilità dell’oggetto, senza dargli una connotazione ontologica fine a se stessa, ora parleremmo di una realtà sociale completamente diversa, dove l’individuo non solo non è isolato e succube del suo oggetto dominante, ma sarebbe realmente (e umanamente) collegato ad altre persone tramite esso – scenario in cui, contrariamente, l’oggetto ricoprirebbe una funzione sana e forse, alla fine, veramente utile.
Continuando sempre sul mio discorso, ho parlato poi di disparità sociali, di disuguaglianza, del fatto che non solo è scomoda moralmente, ma è pure inefficiente: “l’egoismo è scomodo persino per gli egoisti”. Ho augurato ai miei studenti di alimentare e mantenere viva la capacità critica, quel pensiero critico in via di estinzione come l’orso polare, affinché la giustizia sociale non rimanga solo una necessaria e bella espressione da scrivere su di un post, o da utilizzare per ghirlandare ulteriormente una già ottimistica “mission” universitaria, ma diventi complice di un vero e proprio stile di vita.
A questo ho collegato infine il tema dell’importanza della complessità a discapito della semplificazione, che ha molto a che fare con la capacità critica prima citata. L’opera di omologazione e di uniformità per mano soprattutto del capitalismo rende comode e tristi le nostre vite, espropriandole dalla ricchezza delle diversità, dalla felice fatica di scoprirle, rendendo oscure e inesistenti le mille sfaccettature che assume a nostra insaputa il mondo intero. Il nostro difficile compito per svelare la Verità e renderle giustizia, sarà perciò quello di riconoscerla in mezzo al ginepraio della disinformazione, e darle lo spazio che merita evitando l’inutile e dannosa ipertrofia informativa. Per fare questo “non serve il volume. Occorre riconoscere invece coloro che hanno una capacità di trovare metafore, immagini, analisi, che sappiano risarcire la nostra intelligenza dalla violenza che opera il potere quando riduce la complessità e la bellezza del mondo a un quadro misero.”
A questo proposito, dato che vivo in Messico ormai da tempo, vorrei fare delle ultime precisazioni ai lettori italiani, proprio per emancipare questo contesto da visioni che, per la maggiore, risultano essere decisamente stereotipate.
Tanto per iniziare, il Messico non è America del Sud, e nemmeno America centrale; è certamente America Latina, ma quando facciamo riferimento al Messico stiamo già parlando di America del Nord. Quando dite “americani”, facendo allusioni strampalate, state indicando tutti i popoli che vivono nell’intero continente Americano, quindi fate attenzione se volete riferirvi solo agli statunitensi: tutti gli altri potrebbero non gradire. Quando pensate al Messico non pensate subitamente al sole, al caldo, alle spiagge. Certo, di spiagge ce ne sono molte, e di bellissime, ma il Messico non è solo questo. Il Messico è, per esempio, sterminati paesaggi brulli e isolati, montagne maestose e aguzze, vallate desertiche che si estendono a perdita d’occhio, le quali possono “regalare” sbalzi di temperatura tra i 20-25 gradi nel giro di poche ore. Quindi non è solo caldo; vivere in Messico non è “stare al caldo”, ma significa anche provare il freddo estremo, quello secco, quello propriamente desertico.
E poi… Non è vero che i messicani sono un popolo pigro (come il nostro caro luogo comune ci insegna da sempre: “mira el dito!!”(!)); anzi, è vero esattamente il contrario: possono essere a volte dei ritardatari cronici, ma assolutamente non-pigri. Secondo recenti statistiche di comparazione tra paesi (dati OCSE), è la nazione dove le persone lavorano più ore senza batter ciglio – a naso viaggiamo su una media di 12-13 anche 14 ore al giorno. Per non parlare poi dello sfruttamento: è forse uno dei popoli più sfruttati sul pianeta, e ciononostante riesce a creare cose straordinarie che non vi sto ora ad elencare.
Quindi smettiamola con questi luoghi comuni disarmanti, con questa semplificazione veicolante che riduce la complessa realtà a un quadro spregevole e misero. Perché la semplificazione è una delle più grandi malattie dei nostri tempi, e va combattuta, resa sterile, con la conoscenza insaziabile, l’approfondimento senza fondo, con la lettura di un libro vero e dimenticato, con viaggi non-turistici che toccano la vita di persone diversissime, per dare finalmente lustro alla bellezza del mondo intero, nelle sue forme e pieghe, e liberarlo così dalla violenza brutale che opera su di esso il potere, perché è soprattutto quest’ultimo che ci vuole con visioni semplificate, con immagini e idee seducenti del tutto superficiali, con un acuto tremore per le emozioni da non farci sentire più nulla: il potere, quello lì, quello di cui spogli dobbiamo irrimediabilmente riappropriarci.
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
Editing grafico a cura di Edna Arauz
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Un pensiero su “Fare breccia sul potere che violenta il mondo”