
L’autobus pubblico sgangherato sfreccia all’impazzata. Sta facendo i suoi giri meandrici per i quartieri interni, prima di imboccare la palpitante superstrada a 4 corsie. Ci troviamo a Ramos Arizpe, Messico, un piccolo villaggio di pomodori diventato gigantesco perché enclave super-industrializzata di un mondo perdutamente globalizzato.
Tutto il mondo arriva qui, per produrre e assemblare a bassissimo costo ogni tipo di armamentario per automobili. Lo sfruttamento della manodopera assurge a leitmotiv indiscusso di tutte le manovre di “sviluppo” della così attrezzata industria automobilistica. Distese di capannoni industriali, dunque, campeggiano su profili azzardati di paesaggi solcati dal deserto; schiere di casette tutte uguali si annidano ai lati di quei capannoni come per trarne linfa: la visione d’insieme porta con sé il silenzio dello sguardo, un timore senza nome.
L’autobus ha appena attraversato il varco di un quartiere non identificato. Le sue veloci serpentine lo destreggiano tra case colorate malmesse, baracche fatiscenti sul punto di crollare: al secondo e ultimo piano certe case si presentano a cielo aperto, mancano proprio di pareti, e questi spazi avvolti dalla polvere vengono adibiti a terrazze di fortuna: ci sono 3 sedie, qualche isolata cianfrusaglia e un “asador”, dove normalmente si cuoce la carne sui carboni. Tutto presenta un andamento lento, quasi stanco; solo il passaggio maldestro dell’autobus rivitalizza lo sguardo spento dei residenti.
Ora si viaggia su salite e discese, tra alberi di vecchie colline ormai pietrificate, asfaltate solo a tratti. Una bambina in ciabatte corre senza meta, si ferma e ricomincia a correre, non si capisce bene chi o cosa stia cercando d’inseguire. Ad un certo punto si ferma di nuovo, guarda in aria, trasognata, affannata: sta guardando il suo pezzetto di cielo. Su un altro versante, una palla rotola giù per la discesa: “dove sbuca una palla c’è sempre un bambino che le corre dietro”, dicevano a scuola guida: questa legge universale vige anche qui, non ha smesso ancora di vivere, di applicarsi. Per fortuna.
Una signora, sempre in ciabatte, cammina su un sottile marciapiede sdentato tenendo in mano solo un portafoglio macilento, probabilmente è uscita a comprare le “tortillas” che mancano in casa… Il pane, da queste parti. Sulla parete, dietro di lei, troneggia una scritta in rosso su una parete bianca dipinta di fresco; una parete mnemonica che offusca tutto ciò che la circonda. Questa scritta, a caratteri cubitali, dice “Ya cumplimos con el agua” (“Abbiamo risolto il problema dell’acqua”). Non è scritto esplicitamente, ma chi vive qui sa benissimo che è una scritta ad opera del governo, dello Stato: comunicazione istituzionale dunque; comunicazione pubblica del apri e chiudi virgolette “Gobierno de la gente”: uno dei loro slogan più identificativi. Un pleonasmo.
L’autobus ora è fermo, aspetta un semaforo rosso che blocca l’uscita dal quartiere. Ci sono due grandi archi a mo’ di cancello che segnano il via vai del traffico, che marcano le distanze e le persistenti incomunicabilità: le cancellate sono i segni discernenti che, tra non molto, qualcosa sta per cambiare.
Oltrepassati gli archi, infatti, si entra in un mondo nuovo, un’atmosfera completamente diversa. Le cilindrate delle auto sono più importanti, più lucenti; il ritmo di tutto diventa più veloce, e alle piccole botteghe all’angolo subentrano i grandi mall, quei mostri appariscenti ed esorbitanti dei centri commerciali. La gente è più dinamica, sembra sapere esattamente dove sta andando, cosa sta inseguendo. Questa gente però si ferma raramente a guardare il cielo, quasi lo ignora.
Sull’autobus, nel frattempo, salgono persone di tutti i tipi: la diversità è la prima cosa che salta all’occhio. Tra le diverse figure, sale per ultimo un ragazzo giovanissimo con un fagotto prezioso tra le braccia: è una bambina avvolta in una coperta rosa. Non fa particolarmente freddo, ma anche col sole è viva la credenza del non esporre i bambini alle temperature esterne, calde o fredde che siano. Queste creature sono considerate “un dono di Dio”, non ci si può sottrarre. E più la condizione sociale è disagiata, più ne aumentano di numero. Bambini che giocano, bambini che corrono pericolosamente tra le morse delle macchine, bambini aggrappati come scimmie alle mani e alle braccia di mamma e papà, bambini che piangono, bambini che sbattono da tutte le parti perché non abituati a camminare, a guardare dritto per vedere cos’hanno dinnanzi: i loro spostamenti, infatti, sono quasi esclusivamente impacchettati in veloci autovetture, che dietro quei loro finestrini piangenti si tramutano facilmente in malefici aggeggi tronca-sogni… Bambini, bambini e ancora bambini: la cognizione del sovrappopolamento non è percepita; le risorse del pianeta sono considerate inesauribili.
Lo scenario dunque è cambiato ed ora l’autobus viaggia super-sonico per la prossima città, Saltillo, quella più immersa nel capitalismo sfrontato, quella che si sente più ispirata al modello statunitense. Tanta è l’ispirazione quanta la malcelata soggezione, una soggezione che tormenta e svilisce le espressioni proprie, le identità locali. L’impressione è quella di una dominazione culturale colonizzante, che vive e si arricchisce a spese di chi scambia la dominazione per opportunità, il lavoro malpagato per una benedizione.
L’autobus quindi passa per le zone più ricche, che mostrano i propri lustri, li preservano, li valorizzano a status symbol. L’altro estremo radicale della scala sociale è fatto quindi da gente che ha un’automobile per ogni componente della famiglia, e che parcheggia queste automobili negli ampi parcheggi privati di zone recintate, anch’esse private e auto-escluse.
Questi territori sono le cosiddette “Gated communities”, le comunità cancello. Al loro interno c’è di tutto, tranne qualcosa che assomiglia vagamente a un senso di comunità. Sono territori dominati da un verde labirintico, e dove il silenzio spettrale fende l’aria che sembra dipinta con nuvole artificiali. Dicono che sia il tipico silenzio della tranquillità, della “sicurezza” dall’imprevisto, dell’”auto-immunizzazione”” dal diverso. Sicuramente, si tratta del silenzio della morte sociale. I vicini di casa a malapena si salutano, forse neanche si conoscono tra loro: l’auto-esclusione che si vive in questi grandi recinti confezionati è solo una forma di vita pubblicizzata e venduta come il sogno di tutta una vita.
Tutto il contrario di un centro cittadino, di una piazza centrale e non-commerciale, delle strade piccole e tortuose che sbucano in vicoli imprevisti, del parco a libero accesso “fonte sicura di disagi”. In questi territori pubblici c’è troppa diversità, c’è troppa probabilità che avvenga qualcosa di pericoloso; c’è troppo dinamismo incontrollato che alla fine stanca. E allora bisogna fuggire, lasciare tutto questo e raggiungere il verde creato ad hoc, le nuvole sparse, i corsi d’acqua messi lì per farti riposare a forza; le case maestose e costose per un accesso che non è libero, ma è ideato e congegnato appositamente per spalancarti le porte all’omologazione di chi ritieni simile a te: un’omologazione tanto comoda quanto sterile.

Ecco che allora le disuguaglianze accentuate si rendono più visibili del visibile; si dispiegano su canali estremi raggiungendo l’osceno. E questa visione oscena di un mondo sociale allo sbando – dove s’incontrano solo le due polarità, di gente poverissima o ricchissima – non si registra solo qui, in Messico. Tutto il mondo, ormai, ne sta assaggiando le fattezze; ogni contesto, a modo suo, la recepisce e la riproduce incessantemente, senza argini, senza redistribuzioni di sorta; senza che la ricchezza prodotta venga spalmata sulle classi sociali per farle riprendere un po’, per concedere loro quel poco ossigeno che meritano.
Questo compito di redistribuzione è stato soppiantato dal denaro, dalla corsa agli armamenti produttivi, dallo sviluppo incurante e controproducente, dalla dominazione incontrastata di un solo settore della società, il mercato, che ha ridotto e riplasmato tutti gli altri a sua immagine e somiglianza. Ed ecco che allora il settore pubblico quasi non esiste più, arranca solo a fatica tra le sue rovine diventando un altro misero e maestoso cartello pubblicitario che si fa pubblicità da sé, perdendo credibilità su tutti i fronti.
Senza domanda, dunque, l’offerta è solo una chimera, anche nel pubblico: l’offerta valida per tutti, quell’offerta che era solita aprirsi agli orizzonti di tutte le classi sociali – a prescindere che si crei o no la domanda – è come quella bambina che corre senza meta: spossata, affannata, le resta solo una cosa da fare: guardare trasognata il suo piccolissimo pezzetto di cielo.
Descrivendo e vivendo sulla pelle tutto questo io però non riesco a desistere: sarò sempre per la cosa pubblica, perché è un bene prezioso, è un bene di tutti. Perché viene fatta passare per la cosa da evitare ad ogni costo, quando invece è quel maledetto pensiero unico a volerla smantellare, a rendercela impraticabile e inefficiente, e lenta – come dice in quel suo mantra ossessivo e funzionale ai suoi scopi egoistici – togliendole tutti i fondi necessari, riducendola così a misero fantoccio delegittimato, e misconosciuto.
E invece una scuola pubblica, un nido pubblico, un parco pubblico, un autobus pubblico, una biblioteca pubblica, una piazza pubblica sono il luogo della dinamicità, del passaggio ininterrotto di identità plurali; sono il luogo dei bordi aperti, porosi, e non dei confini barricanti; sono il luogo dello scambio inaspettato, dell’irrilevanza che si fa maestra di vita, e non del controllo omologato, del criterio standardizzato che toglie ogni margine all’errore; sono l’effervescenza delle diversità, che non hanno paura di mostrarsi, d’impegnarsi, di dire la propria; sono il luogo dell’uguaglianza delle opportunità, e delle parità d’accesso: sono il luogo in cui tutti, senza distinzioni, possono darsi una dannata possibilità.
E non c’entra il portafoglio di papà, non c’entra la classe sociale, non c’entra l’etnia, non c’entra la “sicurezza” di mandare tuo figlio in una scuola di “suoi pari”, e non c’entra neppure la tanto millantata flessibilità del servizio confezionato su misura per te, adatto alle tue sole e improrogabili esigenze: queste sono tutte baggianate, bagliori accattivanti che si spengono repentinamente dietro una fitta coltre fatta di egoismi e di facili guadagni; una coltre costruita maldestramente su atti predatori rapidi e senza alcunché di prospettiva.
La cosa pubblica invece è importante, e va preservata, incentivata, valorizzata. Viaggiare su un autobus sgangherato, puzzolente e affollato, anziché su un Uber costoso e pulitissimo con un autista super-gentile che ti offre la bottiglietta dell’acqua durante il viaggio, mi aiuta a capire sul serio in che razza di società globale e sbagliata mi è capitato di vivere, dove si fa di tutto per eliminare la complessità dell’umano e ridurla a servizio omologato, piatto, asettico, senza possibilità di pensiero.
Più piazze pubbliche dunque, e meno piazze commerciali. Più biblioteche fornite e meno isolotti di libri “best-seller” in sperduti autogrill. Più parchi pubblici liberi, aperti perché aperti alle comunità, e meno comunità cancello che si auto-escludono a vicenda. Più negozi e botteghe per le strade e meno super-store in mall luccicanti costruiti per passeggiate opprimenti, costeggiate miseramente da palme artificiali. Più complessità appagante, più interscambio tra diversità, più flussi caotici e poco chiari e meno omologazione schiacciante, meno comodità soporifera, meno semplicità superficiale, meno semplicità avvilente.
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
Se hai trovato interessante questo articolo “Conformista” rimani aggiornato sulla nostra pagina Facebook, oppure iscriviti alla newsletter direttamente dal nostro blog.