Il giorno in cui ho mandato Hobbes in pensione

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Vedo le rovine di una superba civiltà che si disgregano,

disseminate come un cumulo gigantesco di vanità.

Ma, nonostante questo,

non mi macchierò della grave colpa

di perdere la mia fede nell’uomo.

(Rabīndranāth Tagore)

Vivere questo nostro tempo non è affatto facile. Abusi di potere, violenze, atti di intolleranza, disprezzo della verità, avidità, cinismo, egoismo, devianze psicologiche, sono all’ordine del giorno. Le società umane, nell’era globalizzata, sembrano vivere un momento di profonda crisi: economica, culturale, valoriale ed umana. La gerarchia dei valori ha subito un progressivo mutamento. In cima svettano solitarie le leggi del mercato, l’idolatria del profitto e del suo carburante: il consumo.

Gli orizzonti del consumo sono sempre più individuali e individualizzati mentre, con lo smantellamento del welfare (sempre più trasversale, anche in Europa), vengono meno gli spazi comuni, i beni pubblici, i luoghi di socialità, così importanti per lo sviluppo di un senso di “comunità”. Del resto, la logica neoliberista, assunta come dogma, ci pone tutti gli uni contro gli altri. E la precarietà del lavoro di certo non aiuta: venendo meno le tutele e le forme di rivendicazione collettiva, il lavoratore è tremendamente solo nel cercare di salvaguardare la propria posizione vacillante, sospesa ad un filo troppo sottile…

L’Homo homini lupus di hobbesiana memoria sembra essere l’immagine più calzante per spiegare il funzionamento delle nostre società. Come non essere d’accordo? Del resto, la rappresentazione mediatica di quanto accade nel mondo non fa che confermare questa convinzione.

Eppure non è tutto qui!

C’è uno scarto significativo che merita attenzione. Me ne sono reso conto qualche mese fa, prima della fine di questa torrida estate, quando con un amico ho deciso, un po’ avventatamente, di attraversare la Basilicata a piedi, dal Tirreno allo Ionio. Credo che questa esperienza sia stata fondamentale per mettere in discussione le mie radicate e pessimistiche convinzioni circa il consorzio umano.

Il viaggio, soprattutto se a piedi e con mezzi scarsi, ti pone naturalmente in una condizione di “bisogno” in cui si necessita degli altri. Magari per un’informazione, per un autostop, per un po’ d’acqua quando, dopo aver camminato per chilometri, la borraccia è miseramente vuota.

Durante il lento tragitto attraverso quelle comunità dell’entroterra, ho avuto come l’impressione che, vinta l’iniziale diffidenza, le persone avessero naturalmente una disposizione altruistica. Non solo: avevano desiderio di confrontarsi, di raccontarsi e di ascoltare le nostre storie. Non ricordo tutti i volti di coloro che ho conosciuto durante i 230 km di cammino. Ma ognuno mi ha fatto dono di un po’ di sé, di qualcosa che oggi continuo a portarmi dentro…

Passo dopo passo, una domanda mi risuonava spesso dentro: come mai queste persone prendono in auto degli estranei (esponendosi al rischio di incontrare malintenzionati) e, in alcuni casi, si spingono fino ad invitarli a mangiare in casa propria?

Cosa le induce a spendere tempo e risorse per aiutare, a volte oltre il necessario, due ragazzi che hanno scelto liberamente di fare un viaggio un po’ avventato?

Parte della spiegazione risiede sicuramente nel fatto che si tratta di comunità di stampo rurale, meno esposte al cinismo e all’alienazione delle città, con una rete di scambi sociali sicuramente più fitta.

Ma c’è qualcosa che va al di là di tutto questo e che tocca la natura più intima degli esseri umani. Aiutarsi, trascorrere del tempo assieme, aprirsi alla “estraneità”, raccontarsi le rispettive storie di vita, ci fa sentire profondamente gioiosi e in pace. Ci permette di conoscere il mondo e, infine, noi stessi, in profondità. Ed è la scienza che sembra confermare questa “verità”, che ho esperito in modo del tutto personale e intuitivo. Il team del neuroscienziato Giacomo Rizzolati, ad esempio, ha svelato il ruolo svolto dai neuroni specchio – sia nelle scimmie che nell’uomo – nella codificazione delle azioni degli altri. Semplificando, esistono due modi principali di capire i nostri simili: uno logico e un altro fondato sull’empatia, ossia quella capacità di partecipazione emotiva con quanto fanno gli altri e con ciò che accade loro.

Altri esperti, come il primatologo Rifkin, hanno condotto studi che vanno nella stessa direzione, confutando la tesi dell’aggressività e dell’egoismo come componenti di base della natura umana (con buona pace di T. Hobbes). Tanto che, riprendendo i suoi studi, il filosofo Laura Boella ha affermato:

L’empatia è il «sottotesto della storia dell’uomo» perché l’aumento del ritmo, del flusso e della densità degli scambi interpersonali costituirebbe l’elemento dinamico fondamentale del processo di civilizzazione.

Il XXI secolo richiede un nuovo sguardo sulla natura umana: non più quello dei teorici del liberalismo e dell’economia di mercato, che mettevano al centro l’egoismo e l’utilitarismo, bensì quello che riconosce il ruolo essenziale della capacità empatica nello sviluppo della comunicazione con gli altri e con l’intero mondo vivente».

Si tratta di una verità che molte tradizioni spirituali, ma anche diversi artisti, con la lente di ingrandimento della sensibilità creativa, avevano già ampiamente individuato. Il primo che mi viene in mente – ma è solo uno dei numerosi esempi possibili –  è Hermann Hesse, che, non a caso, aveva riflettuto sul wandern ossia sul camminare come modo per stimolare la creatività e, soprattutto, per farsi intimamente “partecipi” della natura e del mondo. In modo assolutamente lapidario, nelle ultime pagine de La cura (opera successiva al celeberrimo Siddharta), così riscriveva il celebre passo evangelico: «ama il prossimo tuo, perché sei tu stesso».

Ma come si fa ad amare gli altri quando questi sono potenzialmente capaci di azioni e pensieri talvolta abietti? Hesse aveva riflettuto anche su questo e con il tempo «(…) il suo sguardo cambia: aveva guardato con superiorità e sufficienza agli “uomini-bambini” che più di tutto vogliono il potere e la ricchezza. Ora sente che anch’essi sono degni d’amore con le loro debolezze e i loro patetici sforzi».

Nella sofferta conquista di pace interiore, l’inquieto Hesse individua nell’amore e nella comprensione la long and winding road da percorrere per giungere alla meta cui tutti, indistintamente, aspiriamo: una vera e piena felicità.

(Pietro Brancaccio)

RIFERIMENTI

I saggi del neuroscenziato Giacomo Riizzolati e del filosofo Laura Boella sono contenuti in: (A cura di) Giulia Cogoli, Un mondo condiviso, Laterza, 2016.

Sul pensiero di Hermann Hesse rinvio a: Flavia Arzeni, Un’educazione alla felicità. La lezione di Hesse e Tagore, RCS Libri, 2008

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