
Le multinazionali, i nostri pensieri scadenti, e la nostra vita commercializzata, l’illusione di partecipare, con un commento convinto intriso d’errori, l’inquinamento che incombe, come un simulacro, e gli iceberg, che scappano smilzi sciogliendosi per il troppo calore.
Il consumo, il consumo, e ancora il consumo, l’unica ragion d’essere, per nascondere lo stress, per placarlo, e stanarlo, e curarlo nei viaggi per farsi fighi, e le immagini afferenti, controproducenti, tante immagini come un rullo incantatore, ritoccate, photoshoppate, più vere del vero, che sostituiscono la realtà, un concentrato di iperreale che atrofizza il cervello, e lo placa, fra le troppe informazioni fasulle piene di pixel luminosi, e di contenuti privi di contenuto (le informazioni vere si attingono solo davanti alla macchinetta del caffè).
E la gavetta, l’esperienza tanto osannata, quella che serve solo per avere esperienza; il lavoro, il lavoro, e ancora il lavoro, che ha cambiato cifra, e che evapora dalle vecchie concezioni per diventare tabù, per essere lettera morta, per essere sfruttato da giganti senza volto che si impadroniscono di ogni cosa, e del sonno, l’ultima vera terra di conquista.
E i giovani, poveri questi giovani che se ne vanno, ma che vagabondi che sono questi giovani, e le loro famiglie abbandonate su se stesse, abituate ormai ad ascoltare le loro voci solo su WhatsApp.
E le giornate che diventano corte, e i troppi impegni che a volte non sai dove ti trovi, strade provinciali che diventano superstrade a quattro corsie, e le persone che contaminano mordono e fuggono, per sparpagliare in direzioni selvagge la concentrazione delle città.
Lo spazio è una questione relativa, il ricordo una ragione spaziale, e il tempo, beh, quello è solo una figura mentale: sono già due anni ormai che ho preso quel treno per andare al nord, quel nord dove mi attendeva un aereo per espatriare definitivamente, e vedevo mia mamma sul binario morto che mi salutava con gli occhi lucidi, dietro quel vetro che si animava per diventare mobile, pronto a risucchiare tutto ciò che avevo di più caro, ma quel preciso spazio sospeso, quella precisa immagine fissata nell’eternità del momento, mi ha restituito questo ricordo che ora è parte di me, che si destreggia in me come una pennellata mentale. E i ricordi sono cose vive, che si nutrono e danno nutrimento.

Per questo dovrei impegnarmi di più. Parlare di più la mia lingua, insegnarla, cercare d’infondere più passione che posso nel suo apprendimento. Far conoscere la mia cultura esaltando i miei limiti, farla trasudare, perché è troppo preziosa e quello che si fa per essa in patria è pari a zero.
Essere il più gentile possibile, andare oltre la diceria consunta che oggi le persone fanno tutte indiscriminatamente schifo. Non è vero: tutto dipende da quanto tu decida di non farti rispettare. Dovrei guidare di meno (anche se a volte è impossibile) e camminare di più; riprendere con disappunto tutti quelli che, parcheggiati, lasciano il motore acceso perché è più comodo e c’è l’aria condizionata: la terra è malata, e troppo poco spesso ci prendiamo cura di Lei.
Dovrei leggere di più, e ancora di più e di più ancora, perché non è mai abbastanza: i libri sono essenziali per la vita di tutti i giorni, e la storia che il tempo è poco e non ci si può dedicare è una cazzata infinita: prova a spegnere il cellulare e vedi come il tempo torna a dilatarsi (sono quelli che dicono di non avere tempo ad averne più di tutti).
Gli articoli veloci da spazzatura che si pescano su internet non servono a nulla, e anche se per caso ti lasciano qualcosa servono solo a farti dire “ma dove l’ho letto?”. La carta, invece, s’innamora tutte le volte della memoria, e viceversa.
Dovrei stare di più con la mia famiglia, impegnarmi di più per trovare un posto giusto che mi permetta di abbracciarla più spesso. Viaggiare di più e non mostrarlo, non deflorarlo, per nessuna appariscente ragione, perché è un’esperienza che è solo mia con chi condivido direttamente.
Dovrei cercare più proiezione che protezione. Lamentarmi di meno e muovermi di più, senza che il troppo movimento mi faccia dimenticare perché sto in movimento: il fermarsi non solo è necessario, ma mi consente di riappacificarmi con l’attesa.
Avere l’illusione positiva di pensarmi da qualche parte, di evadere per un momento con la mente in un altrove desiderato e magari sconosciuto, e far ingranare al meglio la giornata: intimi pensieri personali, piccoli desideri forieri di momentaneo sollievo.
Credere che ci sia un futuro, immaginarlo, farlo mio, pensare più spesso che ciò che chiamo “futuro” è quella cosa che sto calpestando in questo preciso momento. Perché è il non-essere ancora ma con una prospettiva, il futuro che ora non esiste ma che può essere immaginato, a renderci quello che siamo: esseri che, per darsi un senso nel flusso indistinto degli eventi, hanno bisogno di illusioni, di illusioni positive. E quando queste ci vengono estirpate da un presente acquitrinoso, un presente-limbo in cui noi stessi siamo gli attori che pensano di non poter più agire, allora non può esserci più immaginazione, e con essa nessun barlume di desiderio ormai reietto.
Poter credere allora in qualcosa che mi consenta di avere più occhi possibili su una stessa cosa, e rendermi così le strumentalizzate semplificazioni una scoperta continua, “perché è difficile notare quello che vedi tutti i giorni” (DFW).
Cercare di essere sempre corretto e di ammettere gli errori, perché l’errore è la cosa più bella che mi possa capitare. Dire meno “cosa”, e darle un nome. Arrabbiarmi di meno per tutte le ingiustizie del mondo, e cambiarle, perché si può, prima ancora che salga la furia cieca e paralizzante.
Scrivere di più, utilizzare più parole che posso, perché mi servono, perché ho bisogno di nominare ogni granello di sensazione che ho dentro, per liberarlo, e farlo respirare. E non è vero che servono più fatti che parole: spesso le parole vengono discriminate proprio per consentire ai fatti di essere più liberi nella loro brutalità: un’azione buona deriva da un pensiero sano, quindi da un vocabolario ricco e variegato.
E poi alla fine, senza fine, tenersi strette le persone che ami, averle al tuo fianco, mai oscurarle, perché sono loro in fondo che ti fanno sentire, realmente e immaginativamente, ogni gesto che sei.
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
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