
Durante questi mesi, mi è capitato un gruppo di studenti davvero motivati: impazziscono per la nostra lingua, ne vanno avidi. Quando parlo, e cerco di farli immergere in un contesto diverso dal loro, hanno gli occhi grandi così dal desiderio di apprendere (e di ascoltarmi). E questo è un bene per me, perché, in tutta facilità, posso indirizzare la lezione verso uno svolgimento più dinamico e partecipativo: un piacevole ping-pong tra professore e studenti.
Tuttavia, mi rendo conto che la maggior parte delle domande che comunque nascono dalla loro curiosità sono frutto di disattenzioni impreviste: è come se fossero sintonizzati su canali differenti, avendo però difficoltà nel seguire quello principale a cui stanno assistendo; è come se fossero immersi in un grande ipertesto (una sfilza di pagine aperte), e fossero attratti da una marea d’informazioni che cliccano e sbucano da tutte le parti, senza che queste però riescano a fissarsi nelle loro menti in maniera risoluta.
È un po’ come quello che accade quando siamo su internet: “ci aggiriamo dappertutto, senza arrivare a nessuna esperienza; contiamo senza fine e non siamo in grado di raccontare. Si ha cognizione di ogni cosa, senza arrivare ad alcuna conoscenza.”
Mi accorgo di questa cosa perché, quando imperversano domande a scoppio ritardato (domande ripetitive solo per avere conferma), il più anziano del gruppo comincia a sbuffare, e a muovere il piede spazientito per le continue “interferenze”. È come se, quest’ultimo, fosse l’unico maggiormente sintonizzato sul “canale” della lezione in corso, e non riesca a comprendere bene il perché della continua disattenzione di tutti gli altri, che non riescono proprio a concentrarsi su un’unica cosa per un tempo più o meno prolungato: hanno bisogno di continue pause, di interruzioni, o di altri riferimenti isolati, come se avessero una necessità innata di spaziare liberamente, e di muoversi con facilità tra informazioni molto diverse tra loro. È stato quindi lo scarto generazionale che mi ha fatto riflettere sulla differenza dei loro atteggiamenti, e su come le dinamiche in classe riflettano perfettamente il loro differente modo di apprendere qualcosa.
Questo mi sembra un buon esempio per parlare dell’influenza del virtuale nel realtà di tutti i giorni – anche se i cellulari in classe sono momentaneamente fuori uso (durante la lezione, dovrebbero essere negli zaini e nelle borse; dovrebbero (!)). Questi episodi apparentemente “irrilevanti”, di domande che parlano della fatica dei ragazzi “di stare dietro ad un’unica cosa senza badare a tutte le altre”, ci possono illustrare indizi utili su come le nuove tecnologie stiano effettivamente modificando i nostri comportamenti, e in questo caso le modalità di apprendimento dei ragazzi in classe: abituati quotidianamente a muoversi e a saltare da una pagina all’altra per reperire più informazioni possibili, perdono fisiologicamente molto dal “sacco” che contiene le informazioni della realtà che stanno vivendo in quel momento (o della “pagina reale” in cui si dovrebbero trovare col corpo e la mente).
Se questi studenti trasudano una motivazione che poche volte ho visto in classe, d’altro canto avverto di quante cose si possano perdere per via dei loro continui cali di attenzione, e della memoria che vacilla facendo acqua da tutte le parti. Ovviamente, anch’io non sono esente da questa amnesia generalizzata. Come molte persone oggi, passo molte ore su internet, o smanetto ripetutamente col mio cellulare. Anch’io quindi – come i miei studenti – vivo in pieno questi nuovi tempi tecnologici.
Forte però di questa consapevolezza, cercherò in più occasioni – almeno in qualità di professore – di chiedere ai miei studenti se ogni tanto possono tentare di chiudere “qualche pagina” nelle loro menti, per concentrarsi solo su quello che stanno vedendo e ascoltando in quel momento dedicato; anche se so già che questo mio intento generoso si tradurrà, quasi certamente, in una richiesta velleitaria tutta in salita (anche perché questa difficoltà la comprendo perfettamente).

Probabilmente, tutto questo ha a che fare con il tempo di cui facciamo esperienza, che è per la maggiore un tempo presente e dilatato: un vero e proprio limbo in cui ci si trova quasi come imprigionati.
Quando infatti spiego in classe “il tempo presente”, lo faccio senza pensarci troppo: dopotutto, in quella sede, devo semplicemente illustrare le sue implicazioni grammaticali con la lingua. È quando torno a casa che le cose si complicano, dato che le sue implicazioni riguardano anche la mia vita e quella in generale, e il fatto inequivocabile di quanto esso abbia fatto piazza pulita tutto attorno, liquidando il passato (un vuoto mnemonico inesorabile) e non contemplando alcun genere di futuro (qualcuno oggi parla mai di futuro? che nome ha?). La vita attuale è talmente immersa in questo tempo (presente) che ci stanchiamo anche di viverlo, non prendendolo seriamente in considerazione, e lasciandolo sfumare come se nulla fosse: tanto ce n’è, ed è tantissimo.
Forse sarebbe meglio tornare in aula, e riprendere in mano “la grammatica del tempo”, riscoprendo così, con una leggerezza pensosa, la legittimità degli altri tempi: la ricchezza e le radici del passato; la visione e l’immaginazione del futuro. È come se la continua connessione che viviamo nel presente ci privasse sistematicamente di altre connessioni necessitanti per la nostra vita (passato e futuro); connessioni che, per loro natura, sono causa ed effetto del tempo in cui viviamo, ma che attualmente non sono disponibili.
Così tra un po’, quando terminerò di scrivere qui, riprenderò in mano il mio cellulare, e userò nuovamente le dita: il digitale significa sostanzialmente questo: toccare con le dita un presente prolungato e sempre disponibile. Tantissime immagini, quindi, scorreranno con facilità, perché è come se fossero trasparenti: sono immagini prive di sguardi (le posso toccare, ingrandire, posso fare quello che voglio – sono quasi costretto a fare quello che voglio).
In questo modo, il digitale cancella gli sguardi e crea uno spazio positivo, dove tutti si ritrovano insieme essendo isolati, creando così un regno sterminato dell’Uguale. Non deve dunque sorprendermi se, stando dall’altra parte del mondo, leggo la stessa roba con le stesse immagini con i medesimi commenti; solo le lingue cambiano: la roba che si ammucchia inutilmente rimane sempre la stessa.
Gli sguardi, al contrario, irrompono su di noi, e ci mettono davanti la diversità, il rischio di una negatività necessaria. Senza sguardi è semplice gestire un finto controllo, ma diventa complicato parlare con noi stessi, salvaguardare le nostre preziose capacità auto-riflessive. Senza la possibile negatività del diverso (negatività intesa come scarto, come interruzione dal circolo d’auto-specchiamento di noi stessi; come slittamento semantico in grado di produrre qualcosa) ci disabituiamo a pensare, a pensare in maniera complessa. E possedere in mano tutte quelle immagini trasparenti per trarne furtivamente qualcosa non ci porta a nulla, se non ad un presente privo di sguardi veri; ad un presente privo di sguardo che si rivolge al passato o al futuro.
Al contrario, è uno sguardo prolungato sulle cose (altri sguardi, le stesse immagini con una data impressa, o le immagini di un futuro possibile) a condurci verso una soddisfazione più profonda del vedere, del percepire, con l’essere che si dipana in un racconto sensato senza la necessità inconvulsa di contare – ad esempio – il numero dei like.
Concludendo con le parole del filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, “la cultura digitale rimanda al dito (digitus), che – soprattutto – conta. La cultura digitale si basa sul dito che conta: la storia, invece, è un racconto. La storia non conta: contare è una categoria poststorica. Né i tweet né le informazioni si combinano in un racconto: neppure il diario di Facebook racconta la storia di una vita, una biografia. È additivo, non narrativo. L’uomo digitale gioca con le dita nel senso che conta e calcola ininterrottamente: il digitale assolutizza il numerare e il contare. Anche gli amici su Facebook vengono soprattutto contati; ma l’amicizia è un racconto. L’era digitale totalizza l’additivo, il contare e il contabile. Persino le simpatie vengono contate sotto forma del “mi piace”. Il narrativo perde notevolmente di significato: oggi tutto viene trasformato in qualcosa di contabile, per poter essere tradotto nel linguaggio della prestazione e dell’efficienza. Così, tutto ciò che non è contabile cessa di essere.”
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
Editing grafico a cura di Edna Arauz
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Riferimenti
Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, nottetempo, 2015.
TASTO MATTO
di Fausto Corsetti
Carta profumata, bigliettini con disegni, frasi che davano spazio ai sentimenti. Oggi, invece, le emozioni passano attraverso i tasti, poco cambia se del cellulare o del computer.
Dalle lettere che coprivano lunghe distanze impiegando giorni e giorni per giungere a destinazione, alle e-mail che ci arrivano qualche attimo dopo l’invio, alle chat o agli sms tramite i quali ci si può scrivere avendo una risposta nel tempo necessario per scriverla.
Anno dopo anno si son fatti meno auguri a voce e per telefono e anche per e-mail; e tantissimi via social network, magari “urbi et orbi”. Ci sono stati meno incontri anche brevi per salutarsi. In compenso, nei momenti in cui si riusciva a tirare il fiato, si andava online. Per scambiare due chiacchiere con qualcuno che non fosse un cognato; per fare battute sugli ultimi strani eventi italiani; per rincuorare tutti, a metà pomeriggio del 25 dicembre, con dei “forza e coraggio” a sindrome influenzale galoppante. Poi magari ci si è visti con gli amici. I soliti. Non quelli, magari centinaia, che abbiamo su Facebook. E che stanno portando la parte “più evoluta” del pianeta, insomma i milioni e milioni di Facebook, quelli di Twitter e gli altri, a ridefinire il concetto di amicizia. Non più legame affettivo e leale tra affini che fa condividere la vita e (nella letteratura classica) la morte. Assai più spesso, un contatto collettivo. Non più una frequentazione continua fatte di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene hanno incrociato i propri sguardi due volte…
Tempi di “social networking”: l’amicizia si sta evolvendo, da relazione a sensazione. Da qualcosa che le persone condividono a qualcosa che ognuno di noi abbraccia per conto proprio. E non è poi raro che, dopo certi pomeriggi domenicali passati a chattare, ci si senta non appagati, guarda caso, lievemente angosciati e col mal di testa.
In tanta pantagruelica abbuffata di parole la comunicazione e il modo di scrivere sono lentamente e inesorabilmente cambiati.
Ci siamo tutti impoveriti nel linguaggio. Un buon discorso fatto fra due o più persone, nel passare da vocale a scritto, ha perso tutto il fascino di una tranquilla chiacchierata tra amici: non ci si guarda più in faccia per dirsi qualcosa ma si rimane incollati a schermi e schermucci a “pestare” o “lisciare” una tastiera, aspettando una risposta dall’altro.
Guardarsi negli occhi mentre ci si parla è importante perché lo sguardo rispetto alle parole esprime meglio i concetti, i sentimenti, gli stati d’animo. E’ troppo comodo mascherarsi dietro uno schermo ed esprimere ciò che si pensa piuttosto che affrontare la conversazione a viso aperto.
E’ innegabile d’altro canto che questo sia uno strumento comodo e veloce per comunicare e trasmettersi informazioni o materiale, ma – come tutte le cose – anche questo deve essere adoperato nel giusto modo perché risulti veramente utile e non diventi un alibi, un paravento dietro cui nascondersi per paura di affrontare l’interlocutore faccia a faccia.
Da tutta la tecnologia che ci “avvolge” e continuerà ad avvolgerci non trarre beneficio sarebbe forse poco intelligente, l’importante è usarla con raziocinio e quando realmente serve, e non per pigrizia o altro; ci deve aiutare a semplificare le cose non a renderci più pigri; avari persino nella possibilità di scambiarsi uno sguardo.
Anche una mano che accarezza, se non è accompagnata da uno sguardo che sostiene e che avvolge, non è efficace e convincente. Sono infinite le parole che possiamo scrivere o pronunciare , ma solo poche quelle che restano, che riescono ad abitare le stanze interiori del cuore.
Ciao Fausto! La redazione de Il Conformista ti ringrazia molto per questo bellissimo contributo che hai deciso di condividere con noi. Da parte mia non ci sono commenti: preferisco che rimanga così, come prezioso completamento all’articolo. Posso solo invitarti alla lettura di altri due articoli sulla stessa tematica, e proporti – qualora ne avessi voglia – di collaborare con noi pubblicando un tuo articolo qui su Il Conformista. Grazie mille. Francesco
https://ilconformistaonline.wordpress.com/2015/07/12/la-vita-appesa-a-un-like/ https://ilconformistaonline.wordpress.com/2016/03/22/sempre-piu-collegati-sempre-piu-distanti/