
Non sono completamente d’accordo con chi dice che, per lanciarsi in un cambio radicale di vita, basta fare il primo passo; che questa è la tappa più difficile da affrontare, e che tutto quello che viene dopo è solo una tranquilla e felice passeggiata “oltre i propri limiti”. Probabilmente, chi scrive e diffonde questa roba – strappa like, strappa condivisioni – non l’ha mai veramente fatto quel passo. C’è tanto altro, dopo quella decisione, che non viene raccontato.
C’è per esempio lo spaesamento, la novità che ti riempie e ti cambia; il cambiamento con te stesso da gestire e indirizzare in base all’adattamento alla circostanza – una circostanza che non è più quella che affrontavi automaticamente in precedenza. C’è un severo equilibrio tra un prima e un dopo, che a volte cede e preferisce fregarsene, standosene fintamente sollazzato da una parte o dall’altra. C’è la sensazione di perdere qualcosa, di aver perso qualcosa nel frattempo, ma di vivere comunque tanto altro che quel prima non era in grado di darti.
E non si tratta di sacrifici. Molti hanno sempre in bocca questa parola quando non si riesce ad esprimere che cos’è un cambiamento, uno sforzo, una sfida con se stessi. Per me il sacrificio è quando uno si annulla completamente per darsi agli altri, non quando tenta, seppur con sforzo, di cambiare le cose nella prospettiva di un miglioramento di se stessi. Alla fine si è sempre un po’ egoisti – soprattutto in questi tempi disperati –, e il sacrificio ha poco a che fare con tutto questo.
Quello che volevo dire, in fondo, è che le cose cambiano, come è normale che sia, ma bisogna sempre viversi addosso la cifra del cambiamento. E che quel primo passo esiste, certo, ma non è l’unico prima di una discesa libera; ce ne sono tanti altri dopo che te la fanno prendere bene o te la fanno prendere male, e il tutto dipende da quell’equilibrio sofisticato, da quel gioco infinito che si costruisce tra un prima e un dopo, tra quello che senti di essere e di portare dentro e quello che, pian piano e senza accorgertene, ti sta impercettibilmente trasformando.
Come dice Richard Sennett, vi è la difficoltà di “riuscire ad affrontare la propria condizione di sradicato in modo creativo, […] [di] imparare a elaborare i materiali che costituiscono l’identità alla maniera in cui un artista lavora i fatti più banali trasformandoli in cose da dipingere. Ognuno deve [imparare a] costruire se stesso”.
Forse il segreto in tutto questo – nel cambiamento e nella costruzione di sé – sta proprio nel non aspettarsi nulla. Riprendersi così la propria attesa e corromperla a discapito della velocità, e della sua affliggente immediatezza, che ci vuole “adrenalinici”, “sempre sul pezzo” (quanto odio questa espressione) e preparati su ogni cosa.
In un mondo iper-connesso che ci deruba furtivamente del tempo di vita, ma che ci dona immancabilmente “pacchi” pregni di visioni inedite, tutto in teoria è fattibile ma poco in realtà è concesso. E la nostra immaginazione è esausta, si estingue da sé, perché lavora poco e male. Perché quel tempo di vita che l’aiuterebbe a risanarla viene a malapena speso, e arranca a fatica dietro le cose veramente importanti per noi.
Ecco che allora bisogna crearsi un proprio retrobottega, un proprio silenzio (il medium dello spirito), e una propria attesa. Bisogna lavorare senza fretta sulle cose che imprimono un significato su di noi, non su ciò che dovrebbe momentaneamente “estasiare” gli altri (quegli altri, del resto, che ti vedono solo come un numero, una matricola, una merce di scambio); su quelle cose che, in un nonnulla, ci provocano un senso familiare, e ci fanno provare sulla pelle quanto sia spossante e bella la fatica, la creatività dell’apporto costruttivo.
Cosicché, quello che forse nel nostro intimo aspettavamo da tempo non esiterà a chiamarci, a tirarci fuori dalla nostra laboriosa attesa, perché sa che dietro ogni nostro gesto, dietro ogni nostro pensiero, c’è quel retrobottega che annienta la superficialità, e che sfida senza sosta il tempo che le appartiene, quel tempo che oggi più che mai ci vuole flessibili e reversibili, pronti a tutto: persone esaurite e “preparate al massimo su ogni cosa”; persone omologate che si auto-sfruttano costantemente (uno sfruttamento senza nessuno che esercita un dominio; uno sfruttamento latente ma terribilmente più efficace); persone che poi, a lungo andare, non sanno più come si fa ad esprimere un intimo e genuino pensiero, non sanno più davvero come si fa a lasciare dietro di sé una traccia inconfondibile.
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
Se hai trovato interessante questo articolo “Conformista” rimani aggiornato sulla nostra pagina Facebook, oppure iscriviti alla newsletter direttamente dal nostro blog.
MONACO METROPOLITANO
di Fausto Corsetti
Nella società dei tempi folli, veloci, l’unica possibilità che abbiamo, per recuperare la nostra vita e sottrarci alla quotidiana sopravvivenza, è diventare protagonisti di una sorta di “monachesimo metropolitano”.
Una disciplina personale che dovremmo iniziare subito perché è sempre più urgente il nostro bisogno di una pausa, di una sosta.
Come i monaci potremmo iniziare a dedicare ogni giorno un po’ di tempo al corpo, camminando nella natura; un po’ di tempo alla mente, scoprendo o riscoprendo letture nascoste, dizionari dimenticati ma mai distrutti e un po’ di tempo all’anima, ascoltando il nostro essere più profondo.
Nell’abbandono dei ritmi frenetici, sarà così possibile lasciare affiorare alla mente parole come umiltà, silenzio, stupore e gioia, parole che per la società di oggi sembrano non avere più alcun significato.
Addirittura appaiono quasi una provocazione rispetto alle logiche dominanti, dove arroganza, superbia, confusione, indifferenza e disperazione fanno breccia nel cuore dell’uomo.
Potrebbe sembrare anacronistico parlare di umiltà in tema di uomo contemporaneo, e ancora di più sembra tale l’idea proveniente dall’etimologia della parola chiaramente riferita alla terra, “humus”, appunto. Ma accanto al significato letterale, ce n’è uno traslato dei cui esempi è ricca la storia, soprattutto la storia delle grandi rivoluzioni morali. Pensiamo cosa sarebbe stato l’Occidente senza l’irruzione dell’umiltà di Francesco. Se solo consideriamo i grandi cambiamenti culturali intervenuti nel XIII secolo, a partire dall’organizzazione sociale nelle nascenti municipalità, non possiamo non constatare quanto questa virtù abbia contribuito all’affermazione di una consapevolezza nuova dell’uomo.
E difatti è proprio a quel secolo che molti studiosi fanno risalire la vera radice dell’Umanesimo.
Attualizzando il dato dell’umiltà nella cultura contemporanea, facilmente la qualifichiamo in opposizione all’arroganza, quale nota distintiva di una democrazia rispettosa delle differenze, a confronto dei tanti autoritarismi che minano alla base l’armonia del consenso e della pace.
Ma più ancora attuale è la dimensione del silenzio. Interiore soprattutto. Quella che insegna a guardare in se stessi e a non lasciarsi distrarre dalle apparenze. Il silenzio è un dono che facciamo a noi stessi, ci aiuta innanzitutto a liberarci da questa smania di riempire tutto, ci permette di stabilire una pausa, ci aiuta a recuperare e sottolineare ciò che davvero conta.
L’uomo contemporaneo è sottoposto ad un bombardamento continuo di stimoli e di comandi, che di fatto finiscono per limitarne una sua libertà sostanziale. L’uomo capace di guardarsi dentro, di fare un po’ di silenzio interiore, si mette al riparo dalle derive mediatiche, dal bruciare la propria vita nell’indistinzione della corrente.
In un processo di deresponsabilizzazione che di fatto gli impedisce di perseguire i propri legittimi interessi, favorendo al contrario l’adeguamento a ciò che entità remote vorrebbero che si fosse. Insomma, il non abbandonarsi alle mode egemoni è fondamentalmente un efficace antidoto alla massificazione.
E’ poi più facile pensare all’attualità del valore dello stupore, non solo come meraviglia delle bellezze della natura, ma anche fiducia e interesse per ciò che accade nella storia, deponendo l’abito dell’indifferenza. Una condizione quest’ultima, sulla quale si fonda gran parte del rifiuto sociale e che frena la fiducia nel cambiamento e nel futuro.
Da ultimo, la gioia, non soltanto come stato d’animo derivante da particolari condizioni, ma piuttosto come energia, vigore morale per non lasciarsi abbattere dalla disperazione e dal dolore. Come base anche di quel pensare colorato che è presupposto del cambiamento e il contrario della rassegnazione di una società non libera e gregaria.
Il tutto inizierà con un po’ di timore, ma presto questa disciplina ci sorprenderà e ci aprirà un mondo… Sentiremo il silenzio parlarci, vedremo le cose con un’altra chiarezza, le stesse parole che avremo modo di ascoltare saranno più dense, più significanti, porteranno con sé una consistenza nuova e diversa.