
L’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno (Svimez) combatte da anni una generosa e solitaria battaglia sul Sud Italia, picconando, uno dopo l’altro, i luoghi comuni che si sono sedimentati negli anni circa la sua dinamica economica. Il più duro a morire – e che condiziona ancora oggi il discorso sulle strategie di sviluppo del Sud – è quello sugli effetti perversi dell’intervento pubblico straordinario nel Meridione che caratterizzò il ventennio 1957-75, di cui si occupa un volume di recente pubblicazione (Svimez, 2016).
I sostenitori della tesi degli effetti perversi delle politiche di intervento straordinario (Trigilia, 1994; Barca 1999) ricorrono spesso, per suffragarla, all’immagine delle “cattedrali nel deserto”: grandi impianti ad alta intensità di capitale (siderurgici, energetici, petrolchimici) trapiantati nei territori meridionali da incentivi a fondo perduto dello Stato o da investimenti diretti delle Partecipazioni Statali, che non creano indotto né occupazione significativa e in definitiva alimentano solo clientelismo, sprechi e inefficienze. Da cui la proposta di sostituire l’intervento pubblico straordinario con un contesto di norme e incentivi (istituzioni) che avrebbe “liberato” il capitale sociale necessario per innescare uno sviluppo endogeno dell’economia meridionale, sull’esempio dei distretti industriali centro-settentrionali.
Il paradigma dello sviluppo endogeno diventa egemone negli anni Novanta, con la crisi politico-istituzionale che coinvolge il nostro Paese e il consolidamento dell’unione economica e monetaria europea (Calafati, 2016). Nel 1992 viene liquidato definitivamente l’intervento straordinario, e nel 1998 nasce la Nuova Programmazione Economica per il Mezzogiorno, che prevede che siano le Regioni ( e non più lo Stato) a prendersi in carico le politiche di sviluppo del Meridione, attraverso i fondi strutturali messi a disposizione dall’Unione Europea (mentre le risorse ordinarie diminuiscono). Si arriva quindi alla riforma del titolo V della Costituzione del 2001, in cui cade qualsiasi riferimento alla questione meridionale, e alle discussioni sulle virtù salvifiche del federalismo fiscale, nuova cura per un Sud malato e improduttivo che non farebbe altro che drenare risorse da un Nord laborioso e competitivo.

Ora, i dati riportati dalla Svimez raccontano un’altra storia. Le politiche attive dello Stato ridussero effettivamente il gap di PIL pro capite tra Centro-Nord e Sud di oltre 10 punti, tra il 1957 e il 1974. La convergenza economica fu favorita dell’introduzione del progresso tecnico in agricoltura, dalle infrastrutture finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno e soprattutto dalle tanto biasimate “cattedrali nel deserto” pubbliche, che ebbero la funzione, essenziale, di fornitrici di input e beni intermedi a basso costo per le aziende tessili e meccaniche del Nord. Inoltre, nel periodo 1969-73 proliferarono, a seguito degli investimenti in capitale fisso delle multinazionali – anch’essi stimolati da contributi pubblici – piccole e medie aziende nei comparti meccanico, elettronico, aeronautico, dei mezzi di trasporto, con rilevanti ricadute occupazionali. Nel complesso, il saldo finale delle politiche attive al 1973 è in attivo per oltre 200mila addetti.
Per contro, Il Sud inizia il suo declino economico proprio negli anni dell’auspicato sviluppo endogeno, quando alla politica industriale e al sostegno agli investimenti si sostituisce il puntello ai consumi tramite sussidi pubblici ai redditi delle famiglie e delle imprese. Scelte di cui beneficiano soprattutto le imprese del Nord (che si trovano a disposizione, senza concorrenti, un mercato di 20 milioni di abitanti), senza effetti occupazionali né incrementi di produttività sul territorio. Negli anni Novanta la crisi del Meridione diventa patologica, ma il tentativo di curarla con i fondi europei assegnati alle Regioni si rivela un clamoroso abbaglio. I criteri di assegnazione di queste risorse sono del tutto arbitrari, beneficiando in gran parte Paesi che praticano sistematiche politiche di dumping fiscale e salariale (Irlanda, Paesi dell’Est) oltre che – è il caso di molti paesi dell’ex Unione Sovietica non soggette alla moneta unica – svalutazioni del cambio per recuperare competitività. Per il Mezzogiorno, inoltre, le risorse europee non si aggiungono né compensano quelle ordinarie, che diminuiscono, e vengono sovente sprecate dalle classi politiche locali in progetti a bassissima redditività economica e sociale.
Negli anni Duemila si fa strada l’idea del federalismo fiscale, costruita sul teorema del Sud parassitario che vive sulle spalle del Nord produttivo. Ma i dati mostrano che proprio in quegli anni i trasferimenti di denaro dal Nord al Sud si riducono costantemente; ciò nonostante, la manifattura centro-settentrionale – privata dell’ossigeno delle svalutazioni competitive – segna il passo. Il Sud rende semmai meno drammatica questa situazione, nella misura in cui esprime una domanda di merci che è soddisfatta quasi interamente dal Centro Nord (il peso percentuale di importazioni nette sulle risorse disponibili è elevato nel Meridione). Quando, dopo l’ultima crisi, il mercato interno meridionale crollerà (-14% dal 2007), le imprese del Centro Nord subiranno perdite rilevanti, non compensate dalla tenuta dell’export nei mercati esteri.
Da quanto detto finora, si capisce come non abbia alcun senso leggere la questione meridionale con ottica micro, localistica, come è stato fatto negli ultimi trent’anni. Bisogna avere il coraggio di rimetterla al centro del dibattito pubblico come questione nazionale, occasione di sviluppo dell’intero Paese. La strategia di politica industriale per il Sud (e quindi per l’Italia) proposta dalla Svimez prevede la messa a valore del patrimonio naturale e culturale, la rigenerazione delle aree interne, lo sviluppo di filiere produttive incentrate sulle energie rinnovabili, la rinnovata operatività dei grandi porti come Gioia Tauro e Taranto, che possono (e devono) sfruttare la loro posizione privilegiata sul Mediterraneo, intercettando il grande flusso di merci che arriva da Cina e India, passa il Canale di Suez e infine raggiunge il Nord Europa. Il compito dello Stato, in questa strategia, non è quello di arbitro che mette qualche regola e lascia poi il campo alle Regioni e all’iniziativa privata, ma semmai quello di regista. Recuperando quel mix di visione sistemica e capacità operativa e progettuale che contraddistinse, negli anni ’50, i paladini dell’intervento straordinario Pasquale Saraceno, Rodolfo Morandi, Gabriele Pescatore, ora finalmente riscattati dalla damnatio memoriae.
Federico Stoppa
Editing grafico a cura di Francesco Paolo Cazzorla
Riferimenti bibliografici
Barca F. Il capitalismo italiano. Storia di un compromesso senza riforme, Donzelli, 1999
Calafati A., La Questione Meridionale (1992-2016): Un’analisi storico-critica, GSSI Working Papers, Aprile 2016
Svimez, La dinamica economica del Mezzogiorno, Il Mulino, 2016
Trigilia C. Sviluppo senza autonomia, Il Mulino, 1992
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