
Alcuni linguisti affermano che voler apprendere la nostra lingua all’estero sia praticamente “un lusso”; che generalmente le nuove generazioni, qualora si trovino a cimentarsi con l’apprendimento di un’altra lingua (nel nostro mondo più che probabile), scelgono più una lingua “per fare” che per “essere” qualcosa di diverso; che l’italiano si studia più per passione che per necessità, e che dunque una sua eventuale scelta viene solo dopo, quando per esempio da adulti s’incominciano ad apprezzare le infinite e sterminate bellezze che il nostro Paese riserva in ogni angolo e occasione, e se ne vuole approfondire l’essenza, coglierne le ricche sfumature.
La verità è che, ormai, la mente di tutti è programmata solo sulle “obbligatorie necessità”: “Perché devo farlo? Qual è la sua utilità? A che mi serve dopo? Che ci faccio?” Tutte domande malate.
Perché invece non dovremmo lasciarci guidare dalle nostre passioni per scegliere i nostri fini? Cosa c’è di tanto sbagliato nell’insegnare ai ragazzi il rispetto per ciò che sentono e tengono dentro, piuttosto che inculcare loro che la legge economica vuole così? E che bisogna per forza rispondere ai dettami necessitanti di un “esterno freddo” che, alla prima occasione, (questo però non glielo si dice) li prenderà solo a pedate utilizzandoli come merce di scambio? Perché non incominciare a mostrare loro, sin da subito, che sono al contrario le ricchezze interiori, quelle che uno si costruisce col tempo, che alla fine pagano in ogni senso e per ogni dove? Perché non educare al culto delle persone, anziché seguire le cerimonie che appartengono al culto della carriera e degli oggetti?
È una riflessione che faccio quotidianamente con i miei studenti: per la maggiore giovani adulti, e tutti innamorati “della melodia, del suono”, del “¡cómo se escucha!”.
Per loro, la necessità della presenza della lingua italiana sul curriculum forse viene dopo.
Ad ogni modo, a latere di questo, c’è da dire che, quanto a “promozione” all’estero delle potenzialità e della ricchezza che la nostra lingua può offrire, siamo messi proprio male, insomma: anche qui non ci smentiamo mai! I tedeschi e i francesi ad esempio, da anni esperti promotori di quella che è forse la cosa più influente che si possa insegnare e diffondere (appunto una lingua), ci surclassano tranquillamente senza soluzione di continuità, così: col gomito fuori dal finestrino e il drink in mano.
Qualche giorno fa, terminata una lezione privata in un omologante e sempre-più-hipster Starbucks (che orrore: l’odore di quella calda e sporca brodaglia che chiamano caffè, unito all’immagine hi-tech del “creativo impegnato” che si sente così-tanto-diverso-dagli-altri che fa finta di lavorare indisturbato sopra un Mac scintillante, con quell’accessorio-standardizzato-di-barba-barbuta che ormai si trova dappertutto), dicevo, all’uscita da questo posto iper-condizionato (oltre che dall’aria, anche dalle arie della molta gente-che-se-la-crede), mi sono imbattuto in un ragazzo che ha cominciato a parlarmi spontaneamente, così, in italiano. Lo balbettava, sia chiaro, ma non aveva nessunissima intenzione di parlarmi in spagnolo, anche se aveva capito benissimo che con me poteva farlo. Ha continuato tranquillo, indisturbato: ho sentito che emanava una specie di esigenza di suoni. Mi parlava del suo amico italiano di Verona, che aveva la mamma olandese e il papà di origini sarde, e la nonna che in cucina è una maga, e discorreva di questa loro amicizia fatta di cibo viaggi scambi e culture, animate tra loro come un miracolo. È stato un attimo, un flash, neanche due minuti. Poi ancora una volta mi ha sorriso, mi ha stretto la mano, e mi ha salutato con un altisonante “Ciao”.
Lo stesso mi capita spesso in classe. I miei studenti – a livello principiante – si cimentano, con un’assurda immediatezza, in dialoghi articolati con risultati a dir poco incredibili. È la lingua che li guida, la sua dinamicità: è la passione incorporata in essa che fa della nostra lingua una delle lingue più conviviali; una lingua – dicono – che, a differenza delle altre, “fa sentire tra amici”.
Sempre qualche giorno fa, mi ha colpito un articolo – condivisibile su molti punti – in cui si argomentava che l’italiano, come lingua, non sia una lingua “sexy”. Che non crede nelle proprie possibilità; che non crede nel proprio futuro: che sia una lingua destinata a non piacersi, con “una diffidenza viscerale, istintiva, paragonabile solo a quella che gli italiani provano verso la classe politica.” Difatti succede che in patria, quotidianamente – sia in buona che in mala fede –, attingiamo spudoratamente all’inglese per “dare alla comunicazione uno smalto, un pigmento, un aroma speciale”. E questo perché alla base – continuava l’articolo – vi è prima di tutto un problema di tipo sociale: “l’eccessiva propensione dell’italiano ai forestierismi dipende dalla fragilità della società italiana”. […] “… se l’italiano è una lingua che non ha fiducia in sé stessa, che non ripone in sé alcuna speranza o aspettativa, è perché la società italiana manca di coesione”.
“Come ha detto Claudio Marazzini – storico della lingua, docente all’università del Piemonte Orientale e presidente dell’Accademia della Crusca – l’Italia è «una nazione che non ha mai avuto confidenza con la propria lingua, in cui il consenso nazionalpopolare non è mai esistito, in cui il sentimento della dignità o potenza della nazione è stato sempre debole, e quando si è sviluppato ha avuto il marchio infamante del fascismo, che resta difficile da cancellare».”
Ora. Noi italiani dovremmo prendere spunto da ciò che invece accade fuori dalle nostre mura, fuori dal nostro solito chiacchiericcio da bar nazionale, ponendoci alla giusta distanza per osservarci criticamente da un occhio esterno; sorprendendoci di quanto di positivo ci sia fuori dai nostri ingialliti e obsoleti giudizi, e incominciare ad adottare un’altra visione, un altro panorama, che parla di un mondo lontano completamente diverso, e che raffigura gente innamorata della nostra lingua a tal punto da trovare il primo pretesto utile per parlarla così, per strada, tra macchine pericolose e sfreccianti, non importa, che sia anche col primo sconosciuto che capita.
Dobbiamo incominciare a parlare di più la nostra lingua, a sentirla nostra, capire cosa ci dice di noi oltre ciò che (forse) già conosciamo, perché il nostro “aroma”, il nostro “smalto”, i nostri “pigmenti” non sono sicuramente da meno, anzi, sono invidiati con una potenza tale da far rabbrividire gente che, come noi, pur possedendo tutta questa ricchezza la cestina e la sostituisce indegnamente con un qualcosa che, spesso, neanche si conosce abbastanza, e che non fa, a mio modo di vedere, tutto questo “esser fighi” (leggi: utilizzo sconsiderato dell’inglese per ogni cosa).
Fa “figo” invece parlare l’italiano, perché è bello e non ce n’è per nessuno, e chi è all’estero come me può confermarvi tutti i vantaggi che comporta il parlare col nostro modo d’essere, con la nostra paraculata gestualità, con la nostra trasportante ironia, parlare cioè di tutto quello che ci contraddistingue come nessun altro, e che significa semplicemente parlare la nostra lingua, trasmettere quelle movenze così “sexy” e musicali della lingua italiana.
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
Editing grafico a cura di Edna Arauz
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Riferimenti
Mario Barenghi, L’italiano non è sexy, Doppiozero, 2016.
Splendido! In linea col mio pensiero.
Credo che tale atteggiamento mentale debba accompagnare ogni attimo della nostra esistenza, sia nel lavoro sia nella quotidianità. Come docente ho sempre seguito e promosso questo pensiero. La frammentarietà del l’insegnamento purtroppo,però, non lo consente. Ogni disciplina insegnata pretende performance dagli alunni che sono quelle dell’orticello: con me questo alunno non ha combinato niente! Poi si scopre che nelle prove INVALSI è l’unico che ha preso 9 e che in storia o in altra disciplina che lo appassiona eccelle. Gardner ce lo ha insegnato, ma pochi docenti lo conoscono. È una vera lotta per quei docenti che davvero avrebbero capito e si sono formati seriamente. Una lotta contro i mulini a vento. I tradizionalismi pedagogici la fanno ancora da padrona!
Cara Maria Paola, grazie per il tuo intervento.
Sì, purtroppo le scuole si stanno tramutando in vere e proprie aziende: “Il confine tra scuola e azienda si fa sempre più sfumato. […] Una scuola che sacrifica la cultura umanistica e il sapere critico sull’altare del progresso tecnologico e dell’ossessione per la crescita economica non è degna di questo nome.” (ti rimando, sul tema, ad un articolo de “Il Conformista” https://ilconformistaonline.wordpress.com/2015/12/12/la-buona-scuola-dove-studiare-non-e-piu-cool/). Poi, riguardo alla “frammentarietà” mi trovi pienamente d’accordo. Purtroppo, è uno dei tanti mali della nostra società – ed è ciò che non permette, in molti campi, di dare respiro ad una visione d’insieme e a lungo termine (anche se molti ritengono che queste componenti non siano più possibili, data la velocità estrema dei cambiamenti in atto, e della complessità in cui tutto prende corpo). Penso, tuttavia, che in questo “cambiamento forsennato” ci sia ancora la possibilità di distinguere ciò che è sano da ciò che è malato.
Ti ringrazio a nome di tutta la redazione.
Quel che ho osservato io è che la nostra “paraculata gestualità” stia sulle palle un po’ a tutti e venga vista come un qualcosa di barbaro o ridicolo, qualcosa di maleducato o sul quale fare battute. Per il resto se si deve flirtare può risultare pure sexy, per tutto il resto mah, qualsiasi accento che non sia anglofono non riesco a vederlo come un vantaggio.
Quando il “vantaggio” viene misurato a senso unico, nell’ottica del solo corispettivo economico, si finisce per pensarla così. Il senso dell’articolo – quello che alla fine cerca di trasmettere, ma con pochi risultati in questo caso – è che occorre riscoprire la nostra lingua; rendersi conto di quanto sia apprezzata all’estero, e di quanto poco facciamo per farla apprezzare ancora di più, al di là del luogo comune (il “barbaro”, il “maleducato”, “il ridicolo” che io qui mai ho riscontrato – se fosse così: perché l’Italia è una delle mete turistiche più ambite? Anche dagli “anglofoni spocchiosi”? Si generalizza chiaro). Quello che voglio dire è che essere un tantino nazionalisti, ogni tanto, non fa mai male, soprattutto nell’ottica di un incontro tra le diversità, e dello loro reciproco arricchimento. Perché il sano nazionalismo è bene che cominci a staccarsi dall’etichetta fascista.
Si veda anche su Internazionale http://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2016/10/17/lingua-italiana-potere