Chi sono i padroni delle nostre città

Renno Hokwerda - Fantasy Map
Renno Hokwerda – Fantasy Map

L’imponente acquisizione straniera e nazionale di edifici e terreni urbani da parte delle grandi corporation – che ha conosciuto un’impennata dopo la crisi del 2008 – può segnare una nuova fase emergente nelle città considerate più importanti? Dalla metà del 2013 fino alla metà del 2014, l’acquisto di proprietà esistenti da parte delle grandi corporation ha superato i 600 miliardi di dollari nelle prime 100 città più popolate, e 1 bilione un anno dopo – e queste cifre includono solo le maggiori acquisizioni (ad es. un minimo di 5 miliardi nel caso di New York City).

Vorrei esaminare i dettagli di quest’ondata di grandi investimenti aziendali, e perché è importante. Le città sono gli spazi dove le persone senza potere riescono a fare storia e cultura, in modo da rendere le loro incapacità inclusive. Se l’attuale acquisizione su larga scala dovesse continuare, perderemmo questo modo di fare che ha reso le nostre città cosmopolite.

Infatti, nella scala di acquisizioni attuale, è possibile vedere una trasformazione sistemica nello schema delle proprietà terriere delle città: una trasformazione che altera il significato storico della città stessa. Quest’ultima, ha delle profonde e significative implicazioni per l’equità, la democrazia e i diritti.

La città è un sistema complesso ma incompleto: in questo mix giace la capacità delle città, attraverso le storie e le geografie, di superare sistemi di potere del tutto formalizzati – dalle grandi corporation ai governi nazionali.  Londra, Beijing, Il Cairo, New York, Johannesburg e Bangkok – per dirne alcune – hanno tutte superato diversi tipi di governi e di mercati.

In questa miscela di complessità e incompletezza, esiste la possibilità per le persone senza potere di poter dire “siamo qui” e “questa è anche la nostra città”. O, come dice la leggendaria affermazione dei poveri in difficoltà in America Latina, “Estamos presentes”: siamo presenti, non vogliamo dei soldi; vogliamo solo farvi sapere che questa è anche la nostra città.

È proprio nelle città di larghe estensioni che chi non ha potere ha lasciato le proprie tracce – culturali, economiche e sociali: nella maggior parte dei casi nei loro quartieri, ma eventualmente queste tracce possono disperdersi verso zone urbane più vaste, come accade con il cibo “etnico”, la musica, le terapie e così via.

Tutto questo non potrebbe accadere in un “business park”, indipendentemente dalla sua densità – questi infatti sono spazi controllati privatamente, dove i lavoratori con una bassa remunerazione possono lavorare, però non possono “fare”. Non potrebbe neanche succedere nelle sempre più presenti piantagioni militarizzate, o nelle miniere. È solo nelle città che si può verificare l’inclusione di chi non ha alcun potere – perché nulla e nessuno può controllare del tutto tale diversità, composta da gente e coinvolgimenti.

Quelli che hanno un certo potere non vogliono essere disturbati dai poveri, ecco perché il modello dominante è quello di abbandonarli nelle loro realtà. In alcune città (ad esempio, negli Stati Uniti e in Brasile) c’è una violenza estrema da parte delle forze dell’ordine. Già questo può diventare una problematica pubblica, la quale, in una prospettiva di lungo raggio, potrebbe forse costituire un primo passo verso l’ottenimento di almeno alcuni diritti. È nelle città, infatti, che molte delle difficoltà trovano rivendicazione, potendo così ottenere nel lungo termine anche un successo parziale.

Però è questa la possibilità – cioè la capacità di fare storia, cultura e molto altro – che oggi è minacciata, a causa della crescita su larga scala della riconfigurazione aziendale delle città.

Factory work - Daniel Kempisty
Factory work – Daniel Kempisty

Una nuova fase

È facile spiegare la crescita smisurata degli investimenti urbani dopo il 2008 come “la stessa minestra riscaldata”. Dopo tutto, alla fine degli anni ’80 si è vista una rapida crescita nell’acquisto straniero di edifici e hotel, specialmente a New York e a Londra. Su “The global city”, ho scritto a proposito della grande quantità di edifici nella città di Londra che, in quel periodo, erano di proprietà straniera. Società finanziarie di paesi così diversi, come il Giappone e l’Olanda, si sono rese conto che necessitavano di un forte appoggio a Londra per accedere ai mercati e ai capitali dell’Europa continentale.

Ma un’analisi delle attuali tendenze mostra sia alcune differenze significative che diversi punti circa una nuova fase nel carattere e nelle logiche di acquisizione, straniera e nazionale, delle grandi corporation. (Non vedo una grande differenza, in termini di impatto urbano, tra gli investimenti nazionali e quelli stranieri. Il fatto è che entrambi sono aziendali e su larga scala). Emergono quattro caratteristiche:

Il brusco aumento nell’acquisto di edifici, anche nelle città che sono state oggetto di tali investimenti per molto tempo, in particolar modo a New York e a Londra. Per esempio, i cinesi sono emersi recentemente come i maggiori acquirenti nelle città come Londra e New York. Attualmente, ci sono circa 100 città in tutto il mondo che sono diventate delle destinazioni significative per tali acquisizioni – l’acquisizione di proprietà straniera delle grandi corporation è cresciuta del 248% dal 2013 al 2014 ad Amsterdam/Randstadt, del 180% a Madrid e del 475% a Nanjing. Al contrario, il tasso di crescita è stato relativamente più basso per le città più importanti in ogni regione: 68.5% per New York, 37.6% per Londra, e 160.8% per Beijing.

L’estensione delle nuove costruzioni. La rapida crescita nel periodo tra gli anni ’80 e ’90 ha riguardato spesso l’acquisto di edifici – in particolare edifici di lusso a Londra, e la Sachs Fifth Avenue e il Rockefeller Center a New York. Nel periodo successivo al 2008, la maggior parte dell’acquisto di edifici fu effettuata per la loro distruzione e il loro rimpiazzo con un tipo di edifici più alti, più aziendali e più lussuosi – sostanzialmente uffici e appartamenti di lusso.

Il diffondersi di mega-progetti con un vasto lascito che inevitabilmente uccide la maggior parte del tessuto urbano: piccole strade e piazze, la densità dei negozi di strada, uffici modesti e così via. Questi mega-progetti incrementano la densità delle città, in realtà però le de-urbanizzano – in tal modo è evidente che questo tipo di densità non è abbastanza per dare luogo a una città, e tutto questo viene facilmente sorvolato in molte discussioni su questi argomenti.

Il pignoramento nelle proprietà modeste possedute da famiglie con redditi-medi. Questo ha raggiunto livelli catastrofici negli Stati Uniti. La banca dati della Federal Reserve, mostra che più di 14 milioni di famiglie hanno perso le loro case tra il 2006 e il 2014. Uno degli esiti di questa catastrofe è una significativa quantità di terreno urbano che si presenta vuoto o inabitato; quantomeno una parte di esso sarà probabilmente riconfigurato.

A lungo termine, una delle caratteristiche più allarmanti di questo periodo è l’acquisizione di interi quartieri – appartenenti a zone industriali sottosviluppate o defunte – per lo sviluppo di determinate aree. Qui il prezzo pagato dagli acquirenti può raggiungere livelli molto elevati. Un esempio è l’acquisto di Atlantic Yards, un vasto ed esteso territorio di New York City da parte di una delle più grandi compagnie cinesi, per il valore di 5 bilioni di dollari. Attualmente, questo territorio è occupato da una mescolanza di fabbriche modeste e di servizi industriali, quartieri modesti, studi di artisti e luoghi d’incontro che sono stati espulsi dalla parte bassa di Manhattan per dare spazio allo sviluppo di enormi edifici adibiti ad appartamenti.

Questo mix molto urbano di occupanti sarà distrutto e rimpiazzato da 14 formidabili e lussuose torri residenziali – un intenso sviluppo di densità che ha l’effetto di de-urbanizzare lo spazio. Sarà una sorta di – de facto – spazio recintato (chiuso da cancelli) con molta gente; e non il denso mix di usi e tipologie di persone che ci viene in mente quando pensiamo alla parola “urbano”. Questo tipo di sviluppo sta decollando in molte città – e la maggior parte con muri virtuali, anche se qualche volta si tratta di muri veri e propri. Vorrei sostenere che con questo tipo di sviluppo, sia i muri virtuali che quelli fattuali hanno impatti similari nella de-urbanizzazione di interi pezzi di città.

La scala e il carattere di questi investimenti sono proiettati nelle grandi quantità di denaro speso per l’acquisto di proprietà urbane e terriere. Quegli investimenti aziendali e globali di 600 bilioni di dollari, che vanno dalla metà del 2013 fino alla metà del 2014, e quelli che superano il trilione di dollari dalla metà del 2014 alla metà del 2015, sono avvenuti solo per ottenere edifici esistenti. La cifra esclude lo sviluppo di determinate aree; un altro trend che va per la maggiore.

Questo proliferante gigantismo urbano è stato fortificato e abilitato dalle privatizzazioni e dalle deregolamentazioni che sono decollate negli anni ’90 nella maggior parte del mondo, e che da lì ha continuato il suo seguito senza troppe interruzioni. L’effetto generale è stato una diminuzione degli edifici pubblici, e una crescita smisurata delle proprietà aziendali private.

Il risultato è un diradamento della consistenza e della scala di spazi precedentemente accessibili al pubblico. Dove prima c’era un edifico di governo che gestiva la regolamentazione e la supervisione di questo o quel settore economico, o che indirizzava le lamentele dei quartieri locali, ora probabilmente c’è una sede centrale di un’azienda, un edificio di appartamenti di lusso o un grande centro commerciale sorvegliato.

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Renno Hokwerda – Fantasy Map

De-urbanizzazione

Le geografie di estrazione globale sono state a lungo la chiave dello sviluppo economico del mondo occidentale. Ed ora si sono trasferite sul terreno urbano, andando ben oltre la tradizionale associazione tra piantagioni e miniere, anche se queste ultime sono state estese e rese più spietatamente efficienti.

L’aziendalizzazione degli accessi e dei controlli sopra il terreno urbano non è stata estesa solo sulle aree urbane esclusive, ma anche al di sotto di abitazioni di famiglie modeste e di uffici governativi. Negli ultimi anni, stiamo assistendo ad una eccezionale acquisizione su larga scala di interi pezzi di città da parte delle grandi corporation. I meccanismi di queste estrazioni sono spesso di gran lunga più complessi delle loro conseguenze, le quali possono essere abbastanza elementari nella loro brutalità.

Una trasformazione chiave è il cambiamento avvenuto dalla maggior parte delle piccole modalità di proprietà private alle più grandi modalità d’azienda, e dal pubblico al privato. Questo è un processo che prende piede in briciole e pezzi, alcuni grandi e alcuni piccoli, e fino ad un certo punto queste pratiche sono state una parte del mercato del terreno urbano e del suo sviluppo. Ma il loro attuale aumento smisurato le conduce ad una nuova dimensione, tale da alterare il significato storico delle città.

Tutto questo è talmente particolare perché quello che era piccolo e/o pubblico sta diventando grande e privato. Il trend si muove dalle piccole proprietà integrate nelle aree di città, che sono attraversate da strade e da piccole piazze pubbliche, a progetti che cancellano la maggior parte di questo tessuto pubblico di strade e piazze attraverso mega-progetti con grandi, qualche volta enormi, influenze. Questo privatizza e de-urbanizza lo spazio cittadino, non dando alcuna importanza alla densità intesa come valore aggiunto.

Le grandi città sono state per lungo tempo complesse e incomplete. Questo ha permesso l’integrazione di differenti persone, logiche, e politiche. Una grande città variegata è la zona di frontiera dove attori provenienti da diversi mondi possono avere un incontro nel quale non sono stabilite regole di coinvolgimento, e dove quelli che non hanno potere e quelli che lo hanno possono incontrarsi.

Questo rende le città spazi di innovazione, piccoli e grandi. E questo include innovazioni create per quelli senza potere: anche se quest’ultimi non acquisiscono necessariamente potere in questo processo, producono componenti di una città, lasciando un’eredità che si aggiunge al suo cosmopolitismo – un qualcosa che pochi altri luoghi possono permettere.

Tale miscela di complessità e incompletezza assicura una capacità di modellare un soggetto urbano e una soggettività urbana. Questo può parzialmente scavalcare il soggetto religioso, il soggetto etnico, il soggetto razziale e, in certi casi, anche le differenze di classe. Ci sono momenti nelle routine di una città dove tutti diventiamo soggetti urbani – l’ora di punta è uno di questi mix di tempo e spazio.

Inner Circle by Eleni Kalorkoti
Inner Circle by Eleni Kalorkoti

Ma oggi, piuttosto che uno spazio per l’inclusione di gente proveniente da contesti e culture diverse, le nostre città globali stanno escludendo la gente e la diversità. I loro proprietari, spesso abitanti part-time, sono molto internazionali – ma questo non significa che rappresentino tante culture e tradizioni diverse. Al contrario, rappresentano la nuova cultura globale del successo – e sono sorprendentemente omogenei, senza dare alcuna importanza alla diversità dei loro paesi di nascita e alla diversità delle loro lingue. Questo non è il soggetto urbano che le nostre grandi e miste città hanno prodotto storicamente. Questo è, soprattutto, un soggetto “aziendale” urbano.

La maggior parte di questo cambiamento urbano prevede inevitabilmente l’espulsione di ciò che era solito essere. Dai loro inizi, che siano 3000 anni o 100, le città hanno continuato a reinventarsi, ciò significa che ci sono sempre vincitori e perdenti. Le storie urbane sono piene di resoconti di persone che una volta erano povere e quasi outsiders, o modeste persone della classe media, e che poi hanno guadagnato terreno – dato che le città favorivano una straordinaria varietà.

Ma oggigiorno, l’acquisizione su larga scala dello spazio urbano da parte delle grandi corporation, nelle sue diverse applicazioni, introduce una dinamica de-urbanizzata. Quest’ultima non aggiunge varietà e diversità. Contrariamente immette un intero nuovo assetto nelle nostre città – nella forma di una tediosa moltiplicazione di edifici esclusivi e di lusso.

Un modo di spiegare questa nuova gamma di installazioni consiste nel fatto che contiene una logica propria – non può essere imbrigliata nelle logiche della città tradizionale. Mantiene la sua totale autonomia e, si potrebbe affermare, ci dà le spalle. E non sembra essere un’ottima cosa.

 

Saskia Sassen

Saskia Sassen è professoressa di sociologia alla Columbia University e co-presidente della Commissione sul pensiero globale. “Urban age” è una ricerca globale sul futuro delle città, organizzata da LSE Cities e dalla società Alfred Herrhausen, che fa parte della Deutsche Bank.

Traduzione di Edna Arauz e Francesco Paolo Cazzorla

Editing grafico a cura di Edna Arauz

Articolo originale: Who owns our cities – and why this urban takeover should concern us all

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3 pensieri su “Chi sono i padroni delle nostre città

  1. A meno di non modificare il paradigma economico del pianeta (abolizione di dazi- globalizzazione – mancata ripartizione della ricchezza) questa è una tendenza inevitabile. Credo che dopo aver trovato “dimora” per sé stesso i ricchi procederanno ad una fase successiva: l’acquisizione di terreni a basso costo su cui attuare politiche abitative (insediamenti) per le masse di immigrati apolidi funzionali all’approvvigionamento di manodopera a basso costo da impiegare nelle multinazionali.

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