Si sono spenti i riflettori sulla “Buona Scuola”. I dibattiti politici, spesso infuocati, che hanno caratterizzato la gestazione di una riforma così importante non hanno lasciato echi nelle orecchie dei più. Forse perché ci siamo abituati: da almeno quindici anni i governi che si avvicendano al potere cambiano le regole del gioco, scaricando sulla scuola un diluvio di norme. Così diverse, ma in realtà così simili: la direzione è quella di rendere la scuola pubblica più autonoma, più meritocratica, più digitale, più vicina al mondo del lavoro, meno dipendente dai finanziamenti pubblici e più accogliente verso quelli privati.
Il confine tra scuola e azienda si fa sempre più sfumato. L’autonomia degli istituti viene rafforzata con la figura del preside-manager, che ha la potestà di chiamare direttamente gli insegnanti (presunti) migliori, disfacendosi dei (presunti) mediocri. La meritocrazia è introdotta premiando i docenti che contribuiscono al “miglioramento della propria scuola, al successo formativo degli alunni, alla capacità di lavorare in team”[1]. I criteri per l’assegnazione dei bonus monetari saranno stabiliti, scuola per scuola, da comitati composti da insegnanti, presidi, genitori e studenti. La nuova scuola promette di traghettarci nelle magnifiche sorti e progressive della società della conoscenza con gli strumenti tecnologici più all’avanguardia, come i tablet, e nuovi piani dell’offerta formativa che daranno maggior spazio alle lingue straniere, alle competenze digitali, all’economia. Nella didattica, Il passaggio dal sapere al saper fare è sancito dal potenziamento, anche nei licei, dei tirocini formativi dentro le aziende. Si spalancano le porte ai finanziamenti dei privati, che possono godere di un credito d’imposta del 65% in sede di dichiarazione Irpef per manutenére gli edifici scolastici – quasi la metà a rischio sismico – in cui studiano i figli e per favorire progetti che puntano alla loro occupabilità.
La “Buona Scuola” è all’altezza delle emergenze che affronta il Paese? È lecito dubitarne. La meritocrazia dei premi e delle punizioni è un’arma spuntata contro la piaga dell’abbandono scolastico, che riguarda il 15% dei ragazzi italiani sotto i 25 anni, contro l’11,2% della media Europea; non tiene conto dei fattori che influenzano maggiormente il rendimento scolastico, come le sperequazioni di reddito e d’opportunità tra famiglie e territori[2]. La modernità luccicante dei tablet[3] e la retorica della società della conoscenza si scontrano con l’analfabetismo di ritorno: l’incapacità di comprendere un articolo di giornale, di calcolare una semplice percentuale, di essere inseriti appieno nella cittadinanza attiva riguarda il 70% degli adulti italiani[4]. Che, nel confronto internazionale, si distinguono per la bassa partecipazione a programmi di formazione continua e per la modestissima spesa in consumi culturali – in media, solo il 7,1% del reddito, meno di quanto fanno i lettoni, i bulgari e i ciprioti. L’enfasi data a un modello scolastico che si adatti alle esigenze del mercato nasconde l’arretratezza di un sistema produttivo che investe poche briciole in ricerca e innovazione – lo 0,7% del PIL contro il 2% della Germania – e che, in assenza di flessibilità nel tasso di cambio della moneta, si illude di recuperare competitività abbassando il già relativamente contenuto costo del lavoro. Viene da chiedersi a che cosa possa servire utilizzare tirocini formativi dentro le aziende in un Paese dove queste non fanno formazione e domandano personale sempre più povero di qualifiche[5]. La risposta è ovvia: ad abbattere costi e salari.
Nel profluvio normativo che ha sommerso il mondo dell’istruzione negli ultimi decenni, ci si è scordati che le più belle pagine della storia scolastica italiana sono state scritte nei territori, grazie alla creatività di educatori straordinari – da Mario Lodi a Don Lorenzo Milani. Solo successivamente si sono tradotte in leggi[6]. Dovremmo fare tesoro di quelle esperienze d’avanguardia. Ci hanno insegnato l’importanza della cultura umanistica e del pensiero critico per formare cittadini, per dare sostanza alla democrazia. Una scuola che sacrifica la cultura umanistica e il sapere critico sull’altare del progresso tecnologico e dell’ossessione per la crescita economica non è degna di questo nome[7]. Né va trascurata l’esigenza di rilanciare l’educazione tecnica e professionale – che alimentò negli anni Ottanta il boom dei distretti industriali, assi portanti della nostra manifattura di qualità. Infine, per contrastare il neoanalfabetismo degli adulti, la scuola deve darsi nuovi compiti: accogliere chi vuole continuare a studiare, anche dopo il diploma[8]. Ma “studio” è la parola tabù delle “riforme”. È tutto uno sbrodolamento di skills, employability, human capital, bonus. L’unico antidoto allo status quo è studiare[9]. In modo continuativo, permanente, dalla culla alla bara. Per migliorare se stessi e gli altri.
Federico Stoppa
NOTE:
[1] https://labuonascuola.gov.it/documenti/LA_BUONA_SCUOLA_SINTESI_SCHEDE.pdf?v=0b45ec8
[2] Rapporto Bes 2015: Il benessere equo e sostenibile in Italia. Link
[3] Per una critica delle nuove tecnologie applicate al mondo della scuola si veda A. Scotto di Luzio, Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0, Il Mulino, 2015
[4] vedi PIAAC-OCSE- Rapporto Nazionale sulle competenze degli adulti 2014
[5] Nel 2007 i laureati che occupavano un posto di lavoro che non avrebbe richiesto una laurea erano il 14,2 per cento del totale. Nel 2012, erano saliti quasi al 20 per cento. 1 neoassunto su 3 in Italia ha qualifiche maggiori del lavoro che svolge. lhttp://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/07/20/ripresa-senza-qualita-il-capitale-umano-avvilito-dagli-anni-di-crisi10.html
[6] Si leggano le riflessioni di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche, Donzelli, 2015
[7] Sul rapporto tra cultura umanistica e democrazia vedi M. Nussbaum, Non per profitto, Il Mulino, 2013
[8] Magari aggiornando la legge sulle 150 ore per il diritto allo studio e alla formazione che il sindacato italiano strappò negli anni Settanta. Vedi la testimonianza di Bruno Trentin, Lavoro e Libertà, Donzelli, 1994
[9] “Abbiamo solo un modo di cambiare le cose: metterci a studiare (…). Ti ribelli, spegni cellulari, computer, mail, messaggi, tivù, radio, carriere, piani finanziari, viaggi, relazioni. Spegni. Te ne vai. Tanti saluti. Pensi. Studi. Allora sì che lo studio diventerebbe il gesto più rivoluzionario che possiamo compiere” P. Mastrocola, la passione ribelle, Laterza, 2015
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Non sono d’accordo. La Buona Scuola contiene cose giuste ed altre criticabili( super assunzione di docenti senza troppe considerazioni sulla qualita’) , ma la sua critica e’ secondo me eccessiva. Nell’autonomia della scuola, nella trasparenza dei risultati educativi per le famiglie e nell’incentivo al Merito ci sono le condizioni per quella proliferazione di sperimentazioni e saperi locali che ritiene correttamente importanti. Sulla vicinanza con il mondo del lavoro c’è poco da dire. La chiedono le famiglie. Per una volta una riforma va anche nella direzione dei desideri del cittadino e non di qualche lobby e corporazione. Ai posteri largo a sentenza.
Gentile Nicolò, la ringrazio per il commento. Vorrei precisare quanto segue. L'”autonomia” che prevede la buona scuola è in realtà un accentramento dei poteri nella figura del dirigente scolastico. I rischi di questa scelta sono evidenti: egli potrà, in deroga alle graduatorie, reclutare gli insegnanti a lui più graditi e allontanare quelli che ritiene, in base a parametri assai dubbi, non idonei. Il rischio è anche quello che si producano scuole di serie A, dove insegnano e studiano solo i migliori, e scuole di serie B abbandonate a sé stessi, esacerbando le già alte disuguaglianze sociali tra le regioni.
“La trasparenza dei risultati educativi e l’incentivo al Merito” è un bello slogan, ma poi bisogna guardare cosa c’è dietro. Premiare un docente sulla base di criteri decisi dai genitori e dagli studenti è abbassare la qualità didattica, visto che l’insegnante meno esigente che regala voti agli studenti sarà avvantaggiato. Infine, l’alternanza scuola-lavoro può essere un’opportunità (in particolare, se venissero potenziati gli istituti tecnici e professionali), ma anche un pericolo. Dai dati risulta chiaramente che le imprese italiane fanno pochissima formazione on job rispetto alle loro omologhe tedesche o francesi. Non vorrei si accentui il fenomeno degli stage, che oggi servono solo per far risparmiare costi alle aziende senza nessun avanzamento nelle competenze dei lavoratori.
L’ha ribloggato su apoforetie ha commentato:
Sul rapporto tra cultura umanistica e democrazia vedi M. Nussbaum, Non per profitto, Il Mulino, 2013