Comprendere la mafia

Il giudice Giovanni Falcone

Come ogni delitto anche il crimine mafioso ci porta, di primo acchito, a prendere le distanze da chi lo ha compiuto, che si tratti di una persona o di un’intera organizzazione. Questo nostro prendere le distanze dall’operato criminale è un fatto comprensibile che sottolinea ed esprime la nostra indignazione: non ci può essere tolleranza per le azioni più atroci. Ma se vogliamo combattere un fenomeno dobbiamo innanzitutto capirlo, e per capirlo dobbiamo sospendere temporaneamente il nostro giudizio per andare oltre quei sentimenti di sdegno che ci separano dalla mentalità criminale. Se non riusciamo in questa operazione la comprensione delle cose ci è preclusa. Edmund Husserl ha indicato lo stato di sospensione del giudizio con il termine epoché. Per il filosofo tedesco è necessario adottare uno stato di epoché se vogliamo cogliere la presenza dell’uomo e delle cose, ovvero ciò che si offre alla nostra esperienza prima di ogni riflessione. La psichiatria fenomenologica insegna a porsi davanti al paziente in questo assetto di non giudizio, per accogliere la sua presenza. Solo così possiamo entrare in empatia con le motivazioni e i sentimenti dell’altro e capirlo: questo vale per le emozioni positive come per quelle negative. Qualcosa di non dissimile caratterizza l’approccio di Giovanni Falcone nel suo lavoro investigativo. Conscio del fatto che per combattere la mafia bisognava penetrarne le dinamiche essenziali e averne una comprensione dall’interno, Falcone non ebbe paura a identificarsi con l’uomo d’onore per vedere il mondo con i suoi occhi. Il suo approccio gli permise di entrare in contatto con numerosi collaboratori di giustizia. Molti di loro, una volta arrestati, chiedevano esplicitamente di poter parlare con lui solo. Il magistrato palermitano sapeva quali parole usare, conosceva i rituali e i valori degli uomini d’onore, ne aveva studiato la gestualità, i silenzi giustapposti, carichi di significato. Falcone si era accorto che la mafia aveva attinto da alcuni valori della sicilianità, strumentalizzandoli per i suoi scopi criminali: la famiglia, la religione, l’orgoglio viscerale. Falcone ha utilizzato le sue doti empatiche per oltrepassare le apparenze ed entrare in contatto con le motivazioni e le emozioni profonde dei criminali. Ritengo che la sua capacità di contattare l’animo umano sia alla base del suo successo come magistrato, in quanto, come lui stesso ha scritto in Cose di cosa nostra, la sicilianità si caratterizza per una certa riservatezza che spinge le persone a celare in pubblico i propri sentimenti, e questo discorso vale ancor di più per la cultura mafiosa.

“Le affinità tra Sicilia e mafia sono innumerevoli e non sono certamente il primo a farlo notare. Se lo faccio, non è certo per criminalizzare tutto un popolo. Al contrario, lo faccio per far capire quanto sia difficile la battaglia contro Cosa Nostra: essa richiede non solo la specializzazione in materia di criminalità organizzata, ma anche una certa preparazione interdisciplinare. Torniamo alle affinità, al fatalismo, al senso sempre presente della morte ed altri tipo di comportamento sociale e individuale. La riservatezza, per esempio, l’abitudine a nascondere i propri sentimenti e qualsiasi manifestazione emotiva. In Sicilia è del tutto fuori luogo mostrare in pubblico quello che proviamo dentro di noi. Siamo lontani mille miglia dalle tipiche effusioni meridionali. I sentimenti appartengono alla sfera del privato e non c’è ragione di esibirli.”

Falcone rimase fino in fondo un magistrato e il fatto di identificarsi col mafioso non lo ostacolò, ma lo aiutò a delineare le indagini che gli permisero di assestare il colpo più grande mai inflitto a Cosa Nostra. Egli aveva capito che era necessario entrare in empatia anche con gli aspetti aggressivi e malvagi del mafioso. Sorprende quando si trovano nel suo libro termini propri del linguaggio della psicologia, come nel riferimento alla necessità di non proiettare il male al di fuori di noi:

“Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. Non ucciderebbero padre e madre per qualche grammo di eroina. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri.”

Dobbiamo sottolineare che l’identificazione non può portare a una conoscenza completa di chi ci sta di fronte, in quanto esistono costantemente nell’altro zone d’ombra, differenze incolmabili, tratti distintivi del carattere, soprattutto se egli è un mafioso. L’incontro tra esseri umani si basa sul fatto che ci si possa sentire come l’altro e contemporaneamente diversi dall’altro. Cionondimeno l’approccio empatico-psicologico di Falcone fu innovativo nel suo campo e determinante nella vittoria di molte battaglie. Ecco spiegate alcune delle parole di Falcone tratte dal suo libro:

“Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”.

E’ interessante notare come, a seguito della pubblicazione del libro, le spiegazioni del magistrato furono largamente fraintese da parte dell’opinione pubblica. In un’intervista televisiva a Falcone datata 1992, anno della sua morte, il giornalista Corrado Augias dimostrò di aver confuso, in maniera imbarazzante, la comprensione di un fenomeno con la sua giustificazione e, peggio ancora, con la stima dello stesso:

“Augias: Dottor Falcone, ho detto prima che questo è un libro che mi è apparso scandaloso, volevo precisare il perché. Perché lei dimostra, in più punti, una profonda stima intellettuale nei confronti della mafia.

Falcone: Conoscere un fenomeno non significa né condividerlo, né tantomeno stimarlo. Io mi sono sforzato di metterlo in luce per quello che mi è apparso, ma certamente non ne condivido le finalità.”

Filippo Gibiino

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Riferimenti

Giovanni Falcone, in collaborazione con Marcelle Padovani (1991), Cose di Cosa Nostra, Bur Rizzoli

Intervista a Giovanni Falcone di Corrado Augias, Babele 12 Gennaio 1992

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