La Cultura è in pericolo

Pierre

Se affermo che la cultura è oggi in pericolo, che è minacciata dal dominio del denaro, e del commercio, e dello spirito mercantile dai molti aspetti, auditel, ricerche di marketing, attese degli inserzionisti, cifre di vendita, lista dei best sellers, si dirà che io esagero.

Se affermo che i politici, che firmano accordi internazionali che riducono le opere di cultura al rango comune di prodotti senza qualità, governabili dalle leggi che si applicano al mais, alle banane o agli agrumi, contribuiscono, senza saperlo, allo svilimento della cultura e delle menti, si dirà che io esagero.

Se affermo che gli editori, i produttori di film, i critici, i distributori, i responsabili delle catene radiofoniche e televisive, che si piegano con zelo alla legge della circolazione commerciale, quella della caccia al best seller o alle star mediatiche e della produzione e glorificazione del successo a breve termine e ad ogni costo, ma anche quella degli scambi circolari di concessioni e favori mondani, se dico che tutti costoro collaborano con le forze imbecilli del mercato e partecipano al loro trionfo, si dirà che io esagero. E tuttavia…

Se ricordo ora che le possibilità di fermare questa macchina infernale dipendono da tutti quelli e quelle che, avendo qualche potere sulle cose della cultura, dell’arte e della letteratura, possono, ciascuno da parte sua e a suo modo, e quanto al loro ruolo, per minimo che esso sia, gettare il loro granello di sabbia nel gioco ben oliato delle complicità rassegnate, e se aggiungo infine che quelli e quelle che hanno l’opportunità di lavorare a Telerama (non necessariamente nelle posizioni più eminenti o più visibili) sarebbero, per convinzione e per tradizione, tra i meglio situati per farlo, si dirà forse, per una volta, che sono disperatamente ottimista. E tuttavia…

Ho spesso messo in guardia contro la tentazione profetica e la pretesa degli specialisti di scienze sociali di annunciare, per denunciarli, i mali presenti e futuri. Ma la logica stessa del mio lavoro mi ha portato a superare i limiti che mi ero dato in nome di un’idea di oggettività che mi è apparsa a poco a poco come una forma di censura. E’ così che oggi, di fronte alle minacce che incombono sulla cultura, e che sono ignorate dalla grande maggioranza, ma anche, spesso, dagli scrittori, dagli artisti, e dagli scienziati stessi, che nondimeno sono i primi interessati, ritengo necessario far conoscere il più ampiamente possibile quello che mi sembra essere il punto di vista della ricerca più avanzata sugli effetti che i processi che chiamiamo di mondializzazione possono produrre nell’ambito culturale.

L’autonomia minacciata

Ho descritto e analizzato (soprattutto nel mio libro intitolato “Le regole dell’arte”) il lungo processo di autonomizzazione al termine del quale si sono costituiti, in un certo numero di paesi occidentali, questi microcosmi sociali che io definisco «campi», campo letterario, campo scientifico o campo artistico. Ho dimostrato che questi universi obbediscono a delle leggi loro proprie (è il senso etimologico del termine “autonomia”) le quali differiscono da quelle del mondo sociale circostante, in primo luogo sul piano economico, dato che il mondo letterario o artistico è per esempio largamente affrancato, almeno nel suo settore più autonomo, dalla legge del denaro e dell’interesse. Ho anche sempre insistito sul fatto che questo processo non aveva niente dello sviluppo lineare e orientato di tipo hegeliano, e che i progressi verso l’autonomia potevano essere interrotti improvvisamente, come si è visto tutte le volte che si sono instaurati i regimi dittatoriali, capaci di espropriare i mondi artistici delle loro conquiste passate. Ma ciò che accade oggi agli universi della produzione artistica nell’insieme del mondo sviluppato, è qualcosa di interamente e davvero senza precedenti: in effetti l’indipendenza, difficilmente conquistata, della produzione e della circolazione culturale nei confronti delle necessità dell’economia è minacciata, nel suo stesso principio, dall’intrusione della logica commerciale in tutte le fasi della produzione e circolazione dei beni culturali.

I profeti del nuovo vangelo neoliberale insegnano che in campo culturale, come altrove, la logica di mercato non può produrre che benefici. Rifiutando la specificità dei beni culturali, in modo sia implicito che esplicito, come nel caso del libro, per il quale rifiutano ogni specie di protezione, essi affermano che le novità tecnologiche e le innovazioni economiche che le sfruttano non potranno che accrescere la quantità e la qualità dei beni culturali offerti, e quindi la soddisfazione dei consumatori, a condizione che tutto ciò che viene fatto circolare dai nuovi gruppi di comunicazione tecnologicamente ed economicamente integrati (messaggi televisivi come libri, film o giochi, sussunti in blocco e indistintamente sotto l’etichetta di «informazione»), sia considerato come una merce qualunque, e quindi trattato come un prodotto qualsiasi e sottoposto alla logica del profitto. Così l’abbondanza legata alle moltiplicazioni di catene televisive digitali telematiche dovrebbe determinare una “explosion of media choices” capace di soddisfare tutti i gusti, di soddisfare qualsiasi domanda; la concorrenza, in questo ambito come in altri, dovrebbe, con la sua sola logica, e soprattutto grazie al progresso tecnologico, favorire la creatività. La legge del profitto sarebbe, anche in questo campo, democratica, perché privilegia i prodotti plebiscitati dalla grande maggioranza.

Potrei corredare ciascuna delle mie asserzioni con decine di riferimenti e di citazioni, in definitiva assai ridondanti. Mi limiterò a un solo esempio, che riassume quasi tutto ciò che ho detto, preso in prestito da Jean-Marie Messier: «Milioni di posti di lavoro sono stati creati negli Stati Uniti grazie alla liberalizzazione completa delle telecomunicazioni e alle tecnologie della comunicazione. La Francia deve ispirarsi a questo modello! Sono in gioco la competitività della nostra economia e il lavoro dei nostri figli. Dobbiamo uscire dal nostro immobilismo e lasciare campo libero alla concorrenza e alla creatività». Cosa valgono questi argomenti? Alla mitologia della differenziazione e della straordinaria diversificazione dei prodotti si può opporre l’uniformazione dell’offerta, sia su scala nazionale che internazionale: la concorrenza, lungi dal diversificare, omogeneizza, poiché inseguire il più vasto pubblico porta i produttori alla ricerca di prodotti omnibus, validi per i pubblici di ogni ambiente di ogni paese, poco differenziati e poco differenzianti: film hollywoodiani, telenovelas, feuilletons adattati per la televisione, soap operas, serie poliziesche, musica commerciale, teatro dei boulevards o di Broadway, best sellers prodotti direttamente per il mercato mondiale, settimanali per tutti.  Inoltre, la concorrenza non cessa di regredire con la concentrazione dell’apparato di produzione e soprattutto di diffusione. Le molteplici reti di comunicazione tendono sempre di più a diffondere, spesso nello stesso momento, il medesimo tipo di prodotti generati dalla ricerca del massimo profitto col minimo costo.

La straordinaria concentrazione dei gruppi di comunicazione dà luogo, come mostra la più recente fusione, quella di Viacom e di Cbs[1], cioè di un gruppo orientato verso la produzione di contenuti e di uno orientato alla diffusione, a una integrazione verticale in cui la distribuzione comanda sulla produzione, imponendo una vera e propria censura attraverso il denaro. Il cumulo di attività di produzione, sfruttamento e distribuzione comporta degli abusi da posizione di monopolio che favoriscono i film di casa: Gaumont, Pathé e Ugc assicurano direttamente o nelle sale della loro rete di programmazione la proiezione dell’80 per cento dei film in esclusiva sul mercato parigino. Si dovrebbe ricordare anche la proliferazione delle multisale, totalmente sottoposte agli imperativi dei distributori, che fanno una concorrenza sleale alle piccole sale indipendenti, spesso destinate alla chiusura. Ma l’essenziale è che le preoccupazioni commerciali e la ricerca del massimo profitto a breve termine, e l’«estetica» che ne deriva, si impongono sempre più alla totalità delle produzioni culturali.

InlineShiftCultureLe conseguenze di questa politica sono esattamente le stesse che si osservano nel campo editoriale, dove si afferma ugualmente una fortissima concentrazione: almeno negli Stati Uniti, il commercio del libro, a parte due editori indipendenti (W. W. Norton e Houghton Mifflin), alcune University Press (peraltro sempre più sottomesse anch’esse ai vincoli commerciali) e qualche piccolo editore combattivo, è nelle mani di otto grandi corporations mediatiche. La grande maggioranza degli editori devono orientarsi senza remore verso il successo commerciale, con l’effetto di una invasione delle star mediatiche tra gli autori e della censura attraverso il denaro. Questo perché, essendo integrati nei grandi gruppi multimediali, gli editori devono raggiungere tassi di profitto molto elevati. Come non vedere che la logica del profitto, soprattutto a breve termine, è la negazione secca della cultura che suppone degli investimenti a fondo perduto, dai ritorni incerti e spesso anche postumi?

È in gioco la sopravvivenza di una produzione culturale che non sia orientata da fini esclusivamente commerciali e che non sia sottomessa al giudizio di coloro che dominano la produzione mediatica di massa attraverso il potere che essi detengono sui grandi strumenti di diffusione. Nei fatti, una delle difficoltà della lotta che si deve condurre in questi campi è che essa può avere delle apparenze antidemocratiche, nella misura in cui le produzioni di massa della cultura industriale sono in qualche modo plebiscitate dal grande pubblico, e in particolare dai giovani di tutti i paesi del mondo, tanto perché sono più accessibili (il consumo di questi prodotti suppone meno capitale culturale), quanto perché sono oggetto di una sorta di paradossale snobismo: in effetti è la prima volta nella storia che si impongono come chic i prodotti più cheap di una cultura popolare (di una società economicamente e politicamente dominante). Gli adolescenti di tutto il mondo che indossano i buggy pants, pantaloni il cui fondo cade a mezza coscia, non sanno certo che la moda che essi ritengono al tempo stesso ultrachic e ultramoderna è nata nelle prigioni statunitensi, così come il gusto dei tatuaggi! Ciòbarrylee vuol dire che la civiltà dei jeans, della Coca-cola e del McDonald’s detiene non solo il potere economico ma anche il potere simbolico, che si esercita tramite una seduzione cui le vittime stesse contribuiscono. Facendo dei bambini e degli adolescenti, soprattutto quelli più privi di specifici sistemi di difesa immunitaria, i destinatari privilegiati della loro politica commerciale, le grandi imprese di produzione e distribuzione culturale, soprattutto cinematografiche, si garantiscono, con l’appoggio della pubblicità e dei media costretti e complici al tempo stesso, una influenza straordinaria e senza precedenti sull’insieme delle società contemporanee, che vengono così sospinte verso una condizione infantile.

Quando, come diceva Gombrich, «le condizioni ecologiche dell’arte» sono distrutte, l’arte non tarda a morire. La cultura è minacciata perché le condizioni economiche e sociali nelle quali può svilupparsi sono profondamente intaccate dalla logica del profitto nei paesi avanzati dove il capitale accumulato, condizione dell’autonomia, è già cospicuo, e a fortiori negli altri paesi. I microcosmi relativamente autonomi all’interno dei quali si produce la cultura devono far crescere, in collegamento con il sistema scolastico, i produttori e i consumatori. I pittori hanno impiegato quasi cinque secoli per conquistare le condizioni sociali che hanno reso possibile un Picasso. Hanno dovuto – lo si apprende dalla lettura dei contratti – lottare contro i committenti perché la loro opera non fosse più trattata come un semplice prodotto, valutato secondo la superficie dipinta e il costo dei colori impiegati; hanno dovuto lottare per ottenere il diritto alla firma, cioè il diritto di venire trattati come autori. Hanno dovuto lottare per il diritto di scegliere i colori che utilizzavano, il modo di usarli e anche, infine, con l’arte astratta, il soggetto stesso, sul quale pesava in modo particolare il potere del committente. Altri, scrittori o musicisti, hanno dovuto battersi per ciò che si definisce, da una data molto recente, il diritto d’autore; hanno dovuto lottare per la rarità, l’unicità, la qualità – e solo grazie alla collaborazione dei critici, dei biografi, dei professori di storia dell’arte, sono riusciti a imporsi come artisti, come «creatori».

Allo stesso modo, sarebbe lungo elencare le condizioni che devono essere soddisfatte perché possano apparire opere cinematografiche innovative e un pubblico capace di apprezzarle. Per citarne solo qualcuna, riviste specializzate e critici preparati, piccole sale e cineteche frequentate dagli studenti, cineasti pronti a sacrificare tutto per realizzare dei film senza successo immediato, produttori abbastanza informati e colti per finanziarli, in una parola tutto quel microcosmo sociale all’interno del quale il cinema d’avanguardia è riconosciuto, ha un valore, e che oggi è minacciato dall’invasione del cinema commerciale e soprattutto dal dominio dei grandi distributori, dai quali i produttori, finché non diventano essi stessi distributori, dipendono. Tutto ciò è oggi minacciato dalla riduzione dell’opera a prodotto e a merce. Le lotte odierne dei cineasti per il final cut e contro la pretesa del produttore di detenere il diritto finale sull’opera sono l’esatto equivalente delle lotte dei pittori del Quattrocento. Frutto di un lungo processo di emersione, di evoluzione, questi universi autonomi sono oggi entrati in un processo di involuzione: sono il luogo di un ritorno indietro, di una regressione, dall’opera verso il prodotto, dall’autore verso l’ingegnere o il tecnico che mette in moto procedure tecniche non originali come i famosi effetti speciali, o verso le vedettes celebri e celebrate dalle riviste a grande tiratura e adatte ad attirare un grande pubblico poco preparato ad apprezzare ricerche specifiche, soprattutto formali. E questi mezzi estremamente costosi sono posti al servizio di fini puramente commerciali, cioè organizzati, in modo quasi cinico, per sedurre il maggior numero possibile di spettatori dando soddisfazione alle loro pulsioni primarie, che altri tecnici, gli specialisti di marketing, tentano di prevedere. È così che si vedono nascere anche in tutti gli ambiti culturali (se ne potrebbero trovare esempi nel campo del romanzo come in quello del cinema e persino in poesia come quella che Jacques Roubaud chiama la poesia «muesli») produzioni culturali di serie che possono arrivare a minare le ricerche dell’avanguardia giocando con le molle più tradizionali delle produzioni commerciali e che, per la loro ambiguità, possono trarre in inganno i critici e i consumatori con pretese moderniste, grazie ad un effetto di allodossia.

La scelta non è, evidentemente, tra la «mondializzazione», intesa come sottomissione alle leggi del commercio, e dunque al regno del «commerciale», che è sempre e ovunque il contrario di ciò che si intende per cultura, e la difesa delle culture nazionali o di una forma particolare di nazionalismo culturale. I prodotti kitsch della «mondializzazione» commerciale (quella del film spettacolare pieno di effetti speciali, o ancora quella della «world fiction», i cui autori possono essere italiani, indiani o inglesi quanto americani) si contrappongono in ogni senso ai prodotti della internazionale letteraria, artistica o cinematografica, il cui centro è ovunque e in nessun luogo, anche se per molto tempo si è collocato a Parigi. Come ha mostrato Pascale Casanova nel libro La République mondiale des lettres, la «internazionale denazionalizzata degli artisti», i Joyce, Faulkner, Kafka, Beckett o Gombrowicz, prodotti puri dell’Irlanda, degli Stati Uniti, della Cecoslovacchia o della Polonia, ma che sono stati coltivati a Parigi, o i Kaurismaki, Manuel de Oliveira, Satyajit-Ray, Kieslowsky, Kiarostami, e tanti altri cineasti contemporanei di tutto il mondo, l’internazionale che ignora orgogliosamente l’estetica di Hollywood non avrebbe mai potuto esistere e sopravvivere senza una tradizione di internazionalismo artistico e, più precisamente, senza il microcosmo di produttori, critici e recettori avvertiti che è necessario alla sua sopravvivenza e che, costituito da molto tempo, è riuscito a sopravvivere in quei luoghi che sono stati risparmiati dall’invasione commerciale[2].

Per un nuovo internazionalismo

Questa tradizione di specifico internazionalismo, propriamente culturale, si oppone radicalmente, nonostante le apparenze, a ciò che si definisce «globalizzazione». Questa parola, che funziona come una parola d’ordine, è in effetti la maschera che giustifica una politica tesa a universalizzare gli interessi particolari, la tradizione particolare delle potenze economicamente e politicamente dominanti, in primo luogo gli Stati Uniti, e a estendere all’insieme del mondo il modello economico e culturale più favorevole a queste potenze, presentandolo al tempo stesso come una norma, un dover-essere, una fatalità, un destino universale, in modo da ottenere l’adesione o, quantomeno, la rassegnazione universale.

Essa mira cioè, in campo culturale, a universalizzare, imponendole a tutto il mondo, le particolarità di una tradizione culturale nella quale la logica commerciale ha raggiunto il suo pieno sviluppo. (Infatti, ma sarebbe lungo darne dimostrazione, la forza della logica commerciale deriva dal fatto che, mentre si presenta come modernità progressista, essa non è che l’effetto di una forma radicale di laisser-faire, caratteristico di un ordine sociale che si consegna alla logica dell’interesse e del desiderio immediato, convertito in fonte di profitto. I campi di produzione culturale che si sono istituiti progressivamente e a prezzo di immensi sacrifici sono profondamente vulnerabili di fronte alle forze della tecnologia alleate con quelle dell’economia. In effetti coloro che nell’ambito di ciascuno di questi campi, come oggi gli intellettuali mediatici e altri produttori di bestseller, si accontentano di piegarsi alle esigenze della domanda e di trarne profitti economici o simbolici, sono sempre, quasi per definizione, contingentemente più numerosi e più influenti di quelli che lavorano senza la minima concessione a qualsiasi forma di domanda, cioè per un mercato che non esiste).

Coloro che restano fedeli a questa tradizione di internazionalismo culturale, artisti, scrittori, ricercatori, ma anche editori, galleristi, critici di tutto il mondo, devono oggi mobilitarsi in una situazione in cui le forze dell’economia, che tendono in forza della loro propria logica a sottomettere la produzione e la distribuzione culturale alla legge del profitto immediato, trovano un sostegno potente nelle politiche dette di liberalizzazione che le potenze economicamente e culturalmente dominanti impongono universalmente sotto il manto della «globalizzazione». Devo qui ricordare, a mia difesa, certe realtà triviali, che non hanno spazio normalmente in una assemblea di scrittori… Sapendo, per di più, che apparirò esagerato – profeta di sventura – tanto sono enormi le minacce che le misure neoliberali fanno pesare sulla cultura. Penso all’Accordo generale sul commercio dei servizi (Agcs) che i diversi Stati hanno sottoscritto aderendo all’Organizzazione mondiale del commercio e la cui applicazione è attualmente in corso di negoziazione. Si tratta in effetti, come hanno mostrato numerose analisi – soprattutto quelle di Lori Wallach, Agnès Bertrand e Raoul Jennar – di imporre ai 136 Stati membri l’apertura di tutti i servizi alle leggi del libero scambio e di rendere così possibile la trasformazione in merci e in fonte di profitto tutte le attività di servizio, comprese quelle che rispondono a quei diritti fondamentali che sono l’educazione e la cultura. Ciò vorrebbe dire farla finita con il concetto stesso di servizio pubblico e con acquisizioni sociali così decisive come l’accesso di tutti all’educazione gratuita e alla cultura nel senso più ampio del termine (in effetti si ritiene che la misura si applichi, in vista di una rimessa in discussione delle classificazioni vigenti, a servizi come l’audiovisivo, le biblioteche, gli archivi e i musei, i giardini botanici e zoologici e tutti i servizi legati al divertimento, arte, teatro, radio e televisione, sport eccetera).

Come non vedere che questo programma (che considera come «ostacoli al commercio» le politiche nazionali tendenti a salvaguardare le particolarità culturali nazionali in contrasto con gli interessi delle industrie culturali transnazionali) non può avere altro effetto che proibire alla maggior parte dei paesi, e in particolare ai meno provvisti di risorse economiche e culturali, ogni speranza di uno sviluppo confacente alle particolarità locali e nazionali e rispettoso delle diversità, in campo culturale come in tutti gli altri settori. Tutto ciò imponendo loro di sottoporre tutte le misure nazionali, regolamentazioni interne, sovvenzioni a enti e istituzioni, licenze, eccetera, al verdetto di una organizzazione che tenta di conferire l’aspetto di una norma universale alle esigenze delle potenze economiche transnazionali.

La straordinaria perversità di questa politica dipende da due effetti che si sommano: da un lato è protetta dalla critica e dalla contestazione grazie al segreto di cui si circondano coloro che la producono; dall’altro è gravida di effetti, talvolta voluti, che non vengono avvertiti, al momento della sua messa in atto, da coloro che dovranno subirli, e che non si manifesteranno che con un ritardo più o meno lungo, impedendo alle vittime di denunciarli tempestivamente (è il caso per esempio di tutte le politiche di minimizzazione dei costi nel campo della salute).

Questa politica, che mette al servizio degli interessi economici le risorse intellettuali che il denaro può mobilitare, come i think tanks che riuniscono pensatori e ricercatori, giornalisti e specialisti di pubbliche relazioni, dovrebbe suscitare il rifiuto unanime di tutti gli artisti, scrittori e scienziati più fedeli all’idea di una ricerca autonoma, che ne sono le vittime designate. Ma, oltre al fatto che essi non hanno sempre i mezzi per accedere alla coscienza e alla conoscenza dei meccanismi e delle azioni che concorrono alla distruzione del mondo al quale la loro stessa esistenza è legata, essi sono poco preparati, a causa del loro attaccamento viscerale, e del tutto giustificato, all’autonomia, soprattutto nei confronti della politica, a impegnarsi sul terreno della politica, foss’anche per difendere la propria autonomia. Pronti a mobilitarsi per cause universali il cui paradigma indelebile è l’azione di Zola a favore di Dreyfus, essi sono meno disposti a impegnarsi in azioni che, avendo per obiettivo principale la difesa dei loro interessi più specifici, appaiono loro designate da una sorta di corporativismo egoista. Ma ciò significa dimenticare che, difendendo gli interessi più direttamente legati alla loro stessa esistenza (attraverso azioni come quelle che i cineasti francesi hanno condotto contro l’Ami, l’Accordo multilaterale sugli investimenti), contribuiscono alla difesa dei valori più universali che, attraverso di loro, sono direttamente minacciati.

Le azioni di questo tipo sono rare e difficili: la mobilitazione politica per cause che superano gli interessi corporativi di una categoria sociale particolare, camionisti, infermieri, bancari o cineasti, ha sempre richiesto molto sforzo e molto tempo, talvolta anche molto eroismo. I «bersagli» di una mobilitazione politica sono oggi estremamente astratti e molto lontani dall’esperienza quotidiana dei cittadini, anche colti: le grandi società multinazionali e i loro consigli d’amministrazione internazionali, le grandi organizzazioni internazionali, Wto, Fmi e Banca mondiale dalle molte sottosezioni indicate da sigle e acronimi complicati e spesso impronunciabili, e tutte le realtà corrispondenti e comitati di tecnocrati non eletti, poco noti al grande pubblico, costituiscono un vero governo mondiale invisibile, inavvertito e sconosciuto al grande pubblico, il cui potere si esercita sugli stessi governi nazionali. Questa specie di Grande Fratello, che si è dotato di archivi interconnessi su tutte le grandi istituzioni economiche e culturali, è già là, attivo, efficiente, pronto a decidere cosa possiamo mangiare e cosa no, cosa possiamo leggere, vedere al cinema o alla televisione, e così via, mentre molti tra i pensatori più illuminati sono ancora convinti che ciò che accade oggi assomigli alle speculazioni scolastiche sui progetti di Stato universale alla maniera dei filosofi del XVIII secolo.

Attraverso il potere quasi assoluto che detengono sui gruppi di comunicazione, cioè sull’insieme degli strumenti di produzione e di diffusione dei beni culturali, i nuovi padroni del mondo tendono a concentrare tutti i poteri economici, culturali e simbolici che, nella maggior parte delle società, erano rimasti distinti o opposti, e sono in grado così di imporre a largo raggio una visione del mondo conforme ai loro interessi. Sebbene non siano, propriamente parlando, produttori diretti, sebbene il modo in cui si esprimono nelle dichiarazioni pubbliche i loro dirigenti non sia il più originale o il più sottile, i grandi gruppi di comunicazione contribuiscono per una parte decisiva alla circolazione quasi universale della doxa dilagante e insinuante del neoliberismo, di cui bisognerebbe analizzare in dettaglio la retorica: le mostruosità logiche come le constatazioni normative (per esempio: «l’economia si mondializza, bisogna mondializzare la nostra economia»; «le cose cambiano in fretta, bisogna cambiare»), le “deduzioni”selvagge, tanto perentorie quanto abusive («se il capitalismo vince ovunque, vuol dire che è iscritto nella natura profonda dell’uomo»), le tesi infalsificabili («è creando la ricchezza che si crea lavoro», «troppa imposta uccide l’imposta» formula che, per i più colti può richiamarsi alla famosa curva di Laffer, di cui un altro economista, Roger Guesnerie, ha dimostrato – ma chi lo sa? – che è indimostrabile), le evidenze così indiscutibili che sembra questionabile il fatto di discuterle («lo stato sociale e la sicurezza del posto di lavoro appartengono al passato»; e «come si può difendere Businessman_ZaraPickenancora il principio di un servizio pubblico?»), i paralogismi spesso teratologici (del tipo «più mercato significa più eguaglianza» o «l’egualitarismo condanna migliaia di persone alla miseria»), gli eufemismi tecnocratici («ristrutturare le imprese» per dire licenziare), e tutte le nozioni o locuzioni belle e fatte, semanticamente quasi indeterminate, banalizzate e levigate dall’usura di un lungo utilizzo automatico, che funzionano come formule magiche instancabilmente ripetute per il loro valore incantatorio («deregulation», «disoccupazione volontaria», «libertà degli scambi», «libera circolazione dei capitali», «competitività», «creatività», «rivoluzione tecnologica», «crescita economica», «combattere l’inflazione», «ridurre il debito pubblico», «abbassare il costo del lavoro», «ridurre le spese sociali»).

Imposta da un effetto di avvolgimento continuo, questa doxa finisce per presentarsi con la forza tranquilla di ciò che va da sé. Quelli che tentano di combatterla non possono contare, anche all’interno dei campi della produzione culturale, né su un giornalismo strutturalmente solidale (il che non esclude delle eccezioni) con le produzioni e i produttori più direttamente interessati alla soddisfazione diretta del più vasto pubblico, né a maggior ragione sugli «intellettuali mediatici» che, preoccupati innanzitutto dei successi immediati, devono la loro esistenza alla sottomissione alle aspettative del mercato, e che possono, in casi estremi, ma particolarmente rivelatori, mettere al servizio del commercio l’imitazione o la simulazione dell’avanguardia che si è costituita contro di esso.

Ciò vuol dire che la posizione dei più autonomi produttori culturali, spossessati a poco a poco dei loro mezzi di produzione e soprattutto di diffusione, non è indubbiamente mai stata così minacciata e così debole, ma neppure è mai stata così rara, utile e preziosa. Curiosamente, i produttori più «puri», i più «gratuiti», i più «formali», si ritrovano così collocati, oggi, spesso senza saperlo, all’avanguardia della lotta per la difesa dei valori più alti dell’umanità. Difendendo la loro singolarità, difendono i valori più universali.

Seul, settembre 2000

Pierre Bourdieu

Editing grafico a cura di Edna Arauz

[1] Oppure, nel momento in cui rileggo questo testo per la pubblicazione, la fusione non meno terrificante del gigante dei media, Time Warner, col primo fornitore mondiale di accessi a Internet, America Online (AOL).

[2] Mi baso qui sulle analisi di PASCALE CASANOVA, La République mondiale des lettres, Ed. du Seul, Paris, 1999.

Fonte: Pierre Bourdieu, Controfuochi 2, per un nuovo movimento sociale europeo, manifestolibri srl, 2001.

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3 pensieri su “La Cultura è in pericolo

  1. PROFONDITA’

    di Fausto Corsetti

    Ammettiamolo: abbiamo un debole per quelli che sanno parlare. Il dono della parola ci affascina. Al punto che, spesso, quasi non ci importa quello che viene detto. Gli affabulatori, i funamboli di ardite metafore, i parolai sono capaci di farci cambiare idea, stravolgere le nostre convinzioni. Una bella frase, il giusto tono di voce, una mimica vivace et voilà, il gioco è fatto.
    Quanta leggerezza, superficialità in giro! Nei giornali, alla radio, in televisione, nei piccoli schermi saltellati da dita impazienti, nei contesti più diversi della vita quotidiana.
    C’è, in tutti gli uomini, una superficie e una profondità. La superficie è piatta e uguale, la profondità un abisso.
    Viviamo spesso in superficie, nel mondo della banalità, del “si dice”, della chiacchiera, del distrarsi, del ripetuto, dove non ci sono emozioni ma, al massimo, sorpresa o curiosità, talvolta soltanto pettegolezzo.
    Possiamo restare giorni e giorni incollati al televisore, guardare tutti i talk show, tutti i dibattiti politici, tutti gli incontri salottieri, e non allontanarci un istante dalla superficie. Possiamo perfino andare in vacanza, fare affari restando in superficie.
    Eppure, è strano, non poche sono le persone attratte dalla profondità.
    Alcuni, ad esempio, dicono di voler provare delle emozioni forti, adrenaliniche, magari correndo in automobile, praticando attività sportive estreme oppure cimentandosi in prove “no limits”: cercano qualcosa che sta al di là.
    Non è detto che la trovino, forse la trovano per un istante e devono perciò ripetere l’esperienza estrema, finché anche questa non si usura, non perde potere e novità.
    Eppure tutti, ogni tanto, siamo condotti sull’abisso della profondità quando qualcosa scuote i fondamenti della nostra esistenza.
    Quando siamo impegnati in una lotta disperata per ottenere un risultato, per superare una dura prova e ci riusciamo. E proviamo un senso di immensa esultanza, il momento di “gloria” che potremo ricordare. Oppure, sul versante negativo, quando muore una persona che ci è cara o ci ammaliamo di una malattia di cui temiamo gli esiti e ripercorriamo, riguardiamo con occhi diversi tutti i nostri rapporti, tutta la nostra vita.
    Distinguiamo, allora, ciò che è essenziale da ciò che essenziale non è, la superficie dalla profondità. Capiamo che la profondità è sacra.
    E, di più: accade di incontrarla quando ci innamoriamo, quando il nostro animo si dilata e diventa capace di emozioni, di pensieri tanto più grandi di noi stessi che vorremmo abbracciare il mondo e fonderci con esso.
    Afferrati dall’amore, possiamo essere felici solo con chi amiamo e se ci distraiamo, se preferiamo altre compagnie o altre cose, la nostra unicità si incrina, si degrada. L’amore è esigente. Tutte le cose perfette richiedono una concentrazione totale: il compositore è totalmente assorbito dalla sua musica, lo scrittore dal suo romanzo.
    Sicuro, c’è un’altra strada verso la profondità: l’arte, la grandissima arte.
    Ci sono dei libri, dei romanzi, dei film, dei brani musicali, talvolta delle opere di pensiero, che invadono il nostro spirito e sembrano sul punto di farlo esplodere tanto ci apriamo al mondo, agli altri, a noi stessi: vediamo, così, qualcosa della nostra essenza, di cosa potremmo essere.
    Allora il nostro abituale modo di vivere ci sembra un vestito vecchio, abbandonato in un angolo di una stanza.
    Non è facile riconoscere il respiro profondo della speranza che trascende la provvisorietà o l’oscurità del quotidiano. Spesso il futuro intimorisce o quantomeno preoccupa. Eppure, la vita si distende nella ferialità, nel succedersi instancabile di piccoli avvenimenti, di speranze nuove, una successiva all’altra.
    Nella consapevolezza dei giorni, si illuminano gli abissi dell’anima, si alimentano di colori mai visti, di promesse coltivate, di parole gelosamente custodite nel silenzio: chi ha visto sorgere il sole può sperare, anche in piena notte, che l’indomani torni a brillare il giorno.

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