Pompei. Tutto è metafisico in questa città, fino alla sua geometria sognante, che non è quella dello spazio, ma una geometria mentale, quella dei labirinti – poiché il congelamento del tempo è più acuto ancora nel calore del sud.
Magnifica è per la psiche la presenza tattile di queste rovine, la loro suspense, le loro ombre che ruotano, la loro quotidianità. Si coniugano la banalità della passeggiata e l’immanenza di un altro tempo, di un altro istante, unico, che fu quello della catastrofe. È la presenza micidiale, ma abolita, del Vesuvio che dà alle strade morte il fascino dell’allucinazione – l’illusione di essere qui e ora, alla vigilia dell’eruzione, e la stessa persona risuscitata duemila anni più tardi, per un miracolo di nostalgia, nell’immanenza di una vita anteriore.
Pochi luoghi lasciano una tale impressione d’inquietante stranezza (non meraviglia che Jensen e Freud vi abbiano ambientato l’azione psichica di Gradiva). È tutto il calore della morte quello che si sente qui, reso più vivo dai segni fossili e fuggitivi della vita corrente: i solchi nelle ruote nella pietra, l’usura delle vere dei pozzi, il legno pietrificato di una porta socchiusa, la piega della toga di un corpo sepolto sotto la cenere. Nessuna storia si interpone tra queste cose e noi, quella storia che dà il loro prestigio ai monumenti: esse si materializzano qui, immediatamente, nel calore stesso in cui la morte le ha prese.
Né la monumentalità né la bellezza sono essenziali a Pompei, ma l’intimità fatale delle cose, e il fascino della loro istantaneità come del simulacro perfetto della nostra propria morte.
Pompei è così una sorta di trompe-l’oeil e di scena primitiva: la stessa vertigine di una dimensione in meno, quella del tempo – la stessa allucinazione di una dimensione in più, quella della trasparenza dei minimi dettagli, come la visione precisa di alberi immersi vivi in fondo a un lago artificiale mentre, nuotando, quasi li sorvolate. Tale è l’effetto mentale della catastrofe: arrestare le cose prima che giungano alla fine, e mantenerle così nella suspense del loro apparire.
Pompei nuovamente distrutta dal terremoto. Che cos’è questa catastrofe che si accanisce su delle rovine? Che cos’è
una rovina che ha bisogno di essere nuovamente smantellata e sepolta? Ironia sadica della catastrofe: essa attende in segreto che le cose, anche le rovine, riacquistino la loro bellezza e il loro senso per abolirle di nuovo. Essa veglia gelosamente e distrugge l’illusione di eternità, ma pure vi gioca, perché irrigidisce le cose in una seconda eternità. È questo, questa rigidità paralizzata, questa siderazione di una presenza grondante di vita a opera di un’istantaneità catastrofica, è questo che dava fascino a Pompei. La prima catastrofe, quella del Vesuvio, era riuscita bene. L’ultimo sisma è molto più problematico. Sembra obbedire alla regola del raddoppiamento degli eventi in un effetto parodistico. Ripetizione pietosa di un grande prima. Compimento di un grande destino attraverso il tocco di una divinità miserabile.
Ma forse ha un altro senso: sta ad avvertirci che non sono più tempi di crolli grandiosi e di resurrezioni, di giochi della morte e dell’eternità, ma di piccole frantumazioni, di annientamenti delicati, mediante slittamenti progressivi, e ormai senza domani, perché sono le tracce stesse ciò che questo nuovo destino cancella. Esso ci introduce all’era orizzontale degli eventi senza conseguenza, ove l’ultimo atto è messo in scena dalla stessa natura in un bagliore di parodia.
Jean Baudrillard
Fonte: Le strategie fatali, Feltrinelli, 2011.
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