La Riconquista della Città Pubblica: Intervista a Chiara Sebastiani

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Possono darsi spazi pubblici senza sfera pubblica? E viceversa, può la sfera pubblica sussistere nello spazio astratto dei media e in quello virtuale supportato dalle nuove tecnologie senza legami con gli spazi delle relazioni faccia a faccia, casuali o organizzate?

La crisi della politica o più in generale della democrazia – non solo nel nostro Paese, è sovente declinata in termini di disaffezione da parte dell’opinione pubblica per i partiti e di scarsa affluenza elettorale. Per spiegare il fenomeno, altri osservatori pongono invece l’accento sulle trasformazioni della dimensione materiale, concreta, dell’agire politico; in particolare, il restringimento (o lo stravolgimento) dello spazio pubblico urbano, inteso sia come spazio fisico che relazionale, generato quindi tanto dalla pianificazione urbana quanto dalle pratiche sociali. Tra questi osservatori figura Chiara Sebastiani, docente dell’Università di Bologna e autrice del volume Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico (Pellegrini Editore, 2014).

In questa ricca intervista esclusiva per il Conformista, la prof.ssa Sebastiani – con un occhio rivolto alle vicende della Tunisia dopo le ultime elezioni, in specie alla questione islamica e femminile – ci aiuta a comprendere meglio lo stretto rapporto che esiste tra città pubblica e democrazia, ridimensionando, fra l’altro, il ruolo “salvifico” della Rete.

D: Per incominciare… Che cos’è per Chiara Sebastiani lo “Spazio pubblico”? Ci potrebbe dare una sua definizione di “tipo ideale”?

R: Uso l’espressione “spazio pubblico” (rifacendomi ad un paio di importanti pensatori come Juergen Habermas e Hannah Arendt), per designare uno spazio, concreto o astratto, accessibile a tutti, dove ci si tratta – per convenzione – da eguali anche se non lo si è, e dove si discute di questioni di interesse generale, usando argomenti e non posizioni precostituite. E’ lo spazio di formazione di un’opinione pubblica critica e autorevole, non manipolata. “Tipi ideali”, nel senso di “modelli” di spazio pubblico sono l’agorà greca e la piazza medievale. Nelle medine nordafricane il caffè e il barbiere, nei Balcani il bazar. Da notare che quando diciamo “tutti” intendiamo tutti coloro che una determinata società ritiene qualificati a comparire in pubblico. Inizialmente erano esclusi ovunque, o quasi, gli schiavi, gli stranieri, le donne. Quasi ovunque, oggi, si trovano ancora spazi pubblici che escludono le donne (non necessariamente per legge ma per costume). In alcune società esistono spazi pubblici separati per sesso, per esempio, in Nordafrica e Medio Oriente, il hammam.

D: Parliamo del dibattito culturale sull’Islam… Alla luce dell’esito delle ultime elezioni politiche, e vista quindi la sconfitta del partito di orientamento islamista moderato: quale carattere ha assunto, secondo Lei, la legittimazione delle trasformazioni in atto? Ci sono state delle cause particolari che hanno riproposto, sulla scena politica, la maggioranza del versante laico?

tunisia democracyR: Le ultime elezioni in Tunisia hanno innanzitutto consolidato le istituzioni democratiche: si è votato per la seconda volta in modo libero e trasparente, eleggendo un’assemblea legislativa “ordinaria”, legittimata dal voto popolare e destinata a restare in carica cinque anni. In secondo luogo le elezioni, con l’assetto tendenzialmente bipartitico che hanno dato al nuovo parlamento, hanno “sdoganato” – per quanto paradossale ciò possa sembrare – proprio Ennahdha, cioè quel partito islamista moderato che le opposizioni si proponevano di escludere dalla scena politica. La sconfitta di Ennhdha mostra che il suo elettorato non era costituito solo da uno zoccolo duro di sostenitori fideisti (il cosiddetto “voto di appartenenza”) ma anche da un elettorato di “opinione” di cui una parte, delusa, ha votato per il suo avversario, dando vita ad una “alternanza” propria di un sistema democratico. Inoltre, essendo comunque Ennhdha risultato il secondo partito in parlamento, i futuri assetti di governo e molte delle leggi (in particolare quelle che richiedono un voto a maggioranza qualificata) dovranno essere negoziate con quella forza politica.

E’ peraltro improprio parlare di “ritorno della maggioranza laica”: questa in Tunisia non è mai esistita e non esiste nemmeno oggi. Nel 2011 i partiti che si definivano “laico-modernisti” conobbero una pesante sconfitta; nel 2014 il vincitore, Nidaa Tounès, è un partito che rifiuta esplicitamente di definirsi “laico”. Più proprio è quindi parlare del successo di una formazione politica antislamista, creata ad hoc per riunire le forze che si oppongono all’islam politico.

Questa formazione ha attirato (in Tunisia dicono ha “syphonné” ha risucchiato) il voto di individui e gruppi con sensibilità diverse e motivazioni diverse. E’ stato un voto “voto-sanzione” nei confronti di Ennahdha degli elettori delusi e un voto strategico (o “voto utile”) di un’opposizione la cui precedente frammentazione aveva contribuito in buona parte al successo degli islamisti. Hanno votato Nidda Tounès coloro che aspettavano dalla rivoluzione un miglioramento delle loro condizioni di vita e hanno spesso visto un peggioramento (“non ci è arrivato nulla”), coloro che attentati terroristici, omicidi politici e lunga latenza delle forze dell’ordine hanno spaventato (“ai tempi di Ben Ali almeno si stava tranquilli”), coloro che si sono sentiti minacciati nel proprio modo di vita, soprattutto le donne (“volevano imporci il loro modello di società, ci avrebbero costrette tutte a portare il hijab“). Ai quadri di Nidda Tounès, partito in cui sono confluiti storici personaggi dell’epoca di Bourguiba e di Ben Ali – il leader Essebsi è stato ministro sotto ambedue – si attribuisce esperienza e competenza in virtù delle cariche pubbliche da loro occupate dall’Indipendenza ad oggi. Due parole sintetizzano le aspettative di quasi tutti gli elettori di Nidda Tounès: “sicurezza” (contro il terrorismo) e “stabilità” (per la ripresa economica).

Come si vede, il dibattito culturale sulla natura dell’islam ha avuto un ruolo secondario in queste elezioni, rispetto a quelle del 2011. I fallimenti e gli errori del governo a maggioranza islamista che gli hanno fatto perdere consensi sono altri, alcuni quasi inevitabili. La performance economica non è stata negativa come sostengono gli oppositori, tenuto conto delle ricadute inevitabili della rivoluzione su settori chiave quali il turismo. Le più grandi difficoltà il governo le ha incontrate nel suo rapporto con l’apparato statale, un apparato “di regime” costruito da Ben Ali, e con il sindacato unico UGTT i cui quadri in larga parte provengono dalla sinistra marxista, gli uni e gli altri da sempre avversari dell’islam politico. All’interno dell’apparato statale Ennahdha non ha saputo costruire alleanze con quella parte di personale attaccato alla imparzialità e alla correttezza della funzione pubblica, preferendo piazzare uomini di sua fiducia nei posti chiave, né è riuscita a rassicurare quella parte importante del ceto medio intellettuale, gli insegnanti in primis, formati nella tradizione illuminista del bourguibismo e del laicismo francese. In quanto al terrorismo, in Tunisia esso può venire da frange islamiste radicali (tipo Brigate Rosse), da jihadisti qaedisti delle aree interne (che approfittano dell’ingente penetrazione di armi dalle frontiere libica e algerina), e da settori dello stato non convertiti alla rivoluzione. In questo contesto difficile da gestire per chiunque gli uomini di Ennahdha (che non avevano nessuna esperienza di governo essendone stati sempre esclusi) di errori ne hanno commessi una quantità ingente.

D: Ritornando alle considerazioni sullo spazio pubblico… Durante la lettura del suo libro ci siamo più volte chiesti: perché, in generale, il corpo nello spazio pubblico, dopo una prima “riconquista” in senso civico, finisce poi per diventare quasi sempre uno strumento strategico per il raggiungimento del potere politico? Quali condizioni e quali variabili di luoghi e pratiche occorrono affinché quello spazio pubblico valorizzi, e quindi faccia durare nel tempo, una sfera pubblica di tipo “civico-sociale”? (Anziché, unicamente, una sfera pubblica di tipo “politico”?)

Supporters-of-Beji-Caid-E-012R: In tutte le società patriarcali il corpo delle donne è sempre stato la posta in gioco di lotte per il potere politico e di competizioni per l’esercizio dell’egemonia culturale. Nel modo in cui appare e agisce nello spazio pubblico esso rinvia sempre simbolicamente a determinati assetti sociali e culturali sicché chi vuole conquistare una società e imporle la sua supremazia cerca di farlo conquistando e controllando il corpo delle donne. Ciò non avviene solo nelle forme brutali dello stupro etnico. I colonizzatori francesi in Algeria combatterono strenuamente il velo delle donne perché quello era il simbolo di una intera cultura e dei suoi valori. Oggi la battaglia ideologica è più sofisticata. In Tunisia i diritti delle donne sono stati invocati in funzione anti islamista ma rischiano di essere dimenticati non appena raggiunto l’obiettivo, come non mancano di sottolineare alcune leader del femminismo storico.

L’unico modo per impedire che lo spazio pubblico diventi spazio di lotta per il potere è un presidio costante dei cittadini. Affinché uno spazio pubblico sia davvero luogo di pratiche discorsive civiche e sociali che consentano la formazione di un’opinione pubblica libera e critica occorrono due cose. La prima è che esso abbia la sua base in una dimensione spaziale fisica, urbana, dove i rapporti sono faccia a faccia. In ultima analisi, la possibilità sempre presente – anche quando si frequentano spazi mediatici e virtuali – di ritrovarsi in uno spazio di compresenza fisica è l’unica garanzia contro le manipolazioni dell’opinione pubblica. La seconda è che questo spazio materiale – quali che siano le sue forme: strade e piazze, caffè e teatri, cinema e mercati –  sia “appropriato” dai cittadini, cioè venga investito, materialmente, simbolicamente, affettivamente, da pratiche spontanee o auto-organizzate che nascono dal basso, non da attività programmate dall’alto. Ciò peraltro è possibile soltanto se i cittadini conservano il gusto per l’incontro e il confronto tra sconosciuti, e finché apprezzano la possibilità di avere spazi in cui “tutti parlano con tutti” come dice una delle mie intervistate nel libro. Nelle nostre città lo abbiamo perso in gran parte. Basti guardare un qualsiasi potenziale “spazio pubblico”: ognuno è ripiegato sul proprio cellulare e isolato dalle proprie cuffie nelle orecchie. In Tunisia potrebbe perdersi o se i cittadini cedono alla paura della violenza o se si lasciano convincere dalle voci interessate che sostengono che la libertà d’espressione è conquista di poco conto a fronte dei problemi materiali del popolo. Lo spazio pubblico, infatti, si conserva solo nella misura in cui viene ricreato e praticato quotidianamente dai cittadini. Non distinguerei tra spazio “civico” e “politico”; ritengo che questa distinzione (che riduce il politico a lotta tra i partiti) abbia una forte connotazione ideologica e sia funzionale ad una depoliticizzazione della società che favorisca il dominio del mercato. “Politico” e “civico” derivano ambedue (l’uno in greco, l’altro in latino) dal termine “città” inteso non solo come habitat ma come comunità e come corpo che determina cosa è il bene comune.

D: Abbiamo visto come nel dibattito mass-mediatico si tenda oggi a ridurre la sfera pubblica al solo livello astratto e virtuale, senza tener conto delle “ragioni della strada”; (come è avvenuto, d’altronde, anche in occasione di questa particolare rivoluzione). Lo stesso Bauman afferma che “oggi qualunque forma di prossimità è destinata a misurare i propri pregi e difetti in base agli standard della prossimità virtuale” … Cosa risponde a queste affermazioni, considerata anche la “compressione” della sfera pubblica da Lei stessa constatata in Tunisia due anni dopo la rivoluzione? Il virtuale, da questo punto di vista (cioè considerando una presunta vitalità della sfera pubblica), sta davvero prendendo il sopravvento sul reale?

R: La sfera pubblica virtuale è fatta di individui (malgrado il grande uso del termine “community”); la sfera pubblica materiale costituisce un collettivo. Sono due tipi di spazi pubblici dotati di caratteristiche, pregi e difetti, molto diversi tra di loro. Una rivoluzione non può farsi online anche se la rete e le sue piattaforme possono essere utilissime per preparare una mobilitazione e per fornirle un appoggio logistico prolungato nel tempo. La presenza dei corpi nello spazio è il fondamento stesso della politica (altrimenti perché ci preoccuperemmo tanto dell’accesso delle donne agli spazi pubblici materiali?). La Rivoluzione tunisina si è fatta negli spazi, e molti di questi sono diventati simboli: l’avenue Bourguiba, la Kasbah di Tunisi, ma anche la Piazza dei Martiri di Kasserine, per esempio.

Il regime di Ben Ali è convissuto per anni con una sfera pubblica virtuale critica: sottoposta a censura, certo, ma spesso in grado di aggirarla. Il gesto che ha trasformato i sollevamenti di strada in rivoluzione – il suicidio di protesta con il fuoco di Bouazizi – non aveva nulla di virtuale. Due anni dopo la rivoluzione la sfera pubblica, più che “compressa”, si è frammentata. All’unità del popolo che ha voluto la cacciata di Ben Ali sono subentrati schieramenti politici con visioni contrastanti sul tipo di paese che si vuole costruire dopo la Rivoluzione. Tuttavia la libertà di espressione nelle strade è a tutt’oggi totale e in generale lo stesso si può dire per le associazioni e i media. La sfera pubblica oggi è più minacciata dalla disaffezione che dalla repressione. La svalutazione della libertà di espressione, la voglia di toglierla agli avversari, possono far venir meno quella che è stata la prima conquista del popolo e la più strenuamente difesa. Ma anche le illusioni sulla sfera virtuale hanno lasciato il posto a una visione più critica: molti oggi lamentano un eccesso di violenza verbale e insulti sulla rete.

Lo scenario possibile, in certi momenti realizzato, non si configura come “sopravvento del virtuale” ma piuttosto come riflusso: la gente si rifugia nel proprio spazio privato e da lì “partecipa” con il pc. Per contrasto, la campagna elettorale di queste legislative, e anche quella in corso per le presidenziali, sta rivalorizzando il contatto diretto, faccia a faccia.

An artist rendering of retail shops at the redeveloped World Trade Center, a New York landmarkD: Siamo arrivati alle conclusioni. Ci preme farle un’ultima domanda in riferimento al nostro contesto occidentale, più precisamente riguardo alla crisi della “città pubblica” e, più in generale, alla crisi delle democrazie… Quali sono, secondo lei, le maggiori cause che hanno portato allo “sfiatamento” della sfera pubblica nei classici “luoghi praticati”, come piazze, strade, biblioteche etc…? È possibile che incontri e pratiche di queste genere, se ancora esistono, debbano avvenire – giusto per generalizzare al massimo – nei centri commerciali? Quali sono i rimedi a queste scoraggianti tendenze?

R: Già Habermas attribuiva la dissoluzione della sfera pubblica alla sua “colonizzazione” da parte del mercato da un lato, dei partiti e delle istituzioni pubbliche dall’altro. Nel contesto attuale, che è quello del trionfo del mercato sul politico, alla “città pubblica” viene negata ragione di esistere nella misura in cui non genera reddito e non attira investimenti. Ciò è reso possibile dal fatto che i cittadini da tempo hanno rinunciato a difenderla e intere città (penso al centro storico di Venezia o di Firenze) che per secoli furono liberi comuni orgogliosamente difesi dai cittadini sono state abbandonate e svendute a forestieri arrivati non con le armi ma con il denaro.

Perché ciò sia avvenuto è stato necessario fare dell’individuo (non dell’uomo) il valore supremo, distruggendo le forme di solidarietà (si pensi alle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro) e rendendo ogni aggregazione (in primis la famiglia) esclusivamente funzionale al consumo. Non stupisce quindi che oggi si moltiplichino spazi “pseudo-pubblici” come i centri commerciali che Bauman definisce “templi del consumo”.

Sembra insomma che capitalismo avanzato e democrazia di massa siano incompatibili con quella “sfera pubblica borghese” nata in Europa tre secoli fa. D’altra parte sono questi che hanno fatto dell’Europa il posto a cui tantissimi giovani oggi in Tunisia, malgrado la Rivoluzione o a causa di essa, guardano, aspirando disperatamente a viverci o a modellare il paese a sua somiglianza: per via del grandissimo benessere materiale, della enorme ricchezza culturale, della straordinaria bellezza e varietà dei suoi paesaggi e delle sue città, dell’infinita libertà di ciascuno di vivere, comportarsi e consumare come meglio crede. E occorre fare un grande sforzo di spostamento di prospettiva per capire che tutte queste affermazioni, oggi, sono vere e false al tempo stesso, corrispondono da un lato a realtà dall’altro a illusioni.

I “rimedi” in questa fase, in Europa (“Occidente” è termine che non regge più, il confine invisibile che passa attraverso la Manica, separando un mondo anglo-sassone da un mondo euro-continentale è assai più profondo di quello che attraversa il Mediterraneo), sono da un lato pratiche di resistenza e conservazione, dall’altro pratiche di apertura. All’interno, si tratta di conservare e trasmettere il più possibile tutti quei beni e valori elencati, più o meno come hanno fatto i monaci medievali dopo la dissoluzione dell’impero romano. All’esterno, si tratta di guardare a ciò che succede lungo quell’ “arco di crisi” a est e a sud dove un fiume in piena preme sulla fortezza Europa. Dalle mie parti (una delle mie tante parti) quando la piena del Po arriva a livelli minacciosi il Magistrato alle Acque può ordinare di tagliare l’argine in certi punti, permettendo un allagamento controllato di pezzi di territorio per salvare l’insieme da inondazioni disastrose.  Forse l’Europa ha meno da perdere ad aprirsi che ad insistere a difendersi chiudendosi.

Francesco Paolo Cazzorla

Federico Stoppa

Un ringraziamento alla Prof.ssa Chiara Sebastiani per la sua preziosa disponibilità nel rispondere alle nostre domande.

Un ringraziamento speciale a Francesca Bartoli dell’Ufficio stampa Comunicattive per aver reso possibile tutto questo.

Chiara Sebastiani: insegna Teoria della sfera pubblica e Politiche locali e urbane presso l’Università di Bologna.  Nata a Vienna, ha vissuto all’Aja, a Sidney e a Tunisi. Ha intrapreso la carriera universitaria di sociologa e politologa alla Sapienza di Roma, proseguita presso l’università della Calabria e approdata infine all’Alma Mater di Bologna. La ricerca sul campo è sempre stata una parte importante della sua attività: ha partecipato a indagini empiriche su larga scala – sui militanti e i quadri del Pci, sui lavoratori dell’Italsidier di Taranto, sulle donne nei governi locali – e ha svolto ricerca qualitativa indipendente. È autrice di La politica delle città (il Mulino 2007). Ha curato Conversazioni, storie, discorsi (con G. Chiaretti e M. Rampazi, Carocci 2001). Ha tradotto e curato l’edizione italiana della Sociologia della Religioni (2 voll., Utet 1988) di Max Weber.

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