Politica sociale e condizione giovanile in Italia: un binomio incerto

Fabrizio Carotti - Giovanile incoscienza
Fabrizio Carotti – Giovanile incoscienza

A differenza degli altri paesi europei, l’Italia non ha saputo sviluppare una coerente politica per i giovani quando ciò sarebbe stato possibile, cioè negli anni Sessanta. Concorsero a quell’inerzia tutta una serie di condizioni e ordini di fattori tipici del nostro Paese: le derive di un modello familistico tradizionale insieme alla delega al sociale-associativo; il timore di una direzione politica dei giovani che ricordasse la mobilitazione eterodiretta del passato regime; il non ancora avvertito logoramento del modelli scolastici istituzionalizzati.

Prima della metà degli anni ottanta, dunque, l’intervento dell’amministrazione centrale dello Stato italiano a favore delle politiche giovanili – considerate nell’accezione specifica[1] –  appariva insufficiente, se non assente. Le diverse competenze riguardanti i giovani – lavoro, istruzione, formazione, tempo libero – erano suddivise tra vari i ministeri, non trovando un raccordo sufficientemente organico in un quadro nazionale di riferimento.

Considerata tale premessa, si può affermare che – nel nostro Paese – è dunque risultato assente sia un organismo politico centrale che si occupasse in maniera specifica della questione giovanile, sia un progetto politico capace di implementare una forma d’intervento di tipo assistenziale. Come sostiene Ranci, «la mancanza in sede centrale di un piano coordinato di interventi ha comportato non solo disorganicità e frammentarietà delle iniziative, ma anche la tendenza a preferire il provvedimento-tampone a una seria programmazione a medio-lungo termine» (Ranci, 1992: 73). Prima di quel periodo, quindi, non si può parlare di una puntale e compiuta politica giovanile ma, al contrario, di una serie di interventi che hanno oltremodo privilegiato la necessità del controllo sociale, intervenendo solo laddove si fossero presentate le problematiche più urgenti, e potenzialmente pericolose, per l’ordine pubblico.

In seguito, nel 1986, venne istituito – presso il ministero degli Esteri – il Comitato italiano per l’Anno internazionale della gioventù. Con l’istituzione del Comitato, si ponevano le basi per l’attivazione di alcune connessioni, attraverso la formazione e il coordinamento di cinque gruppi di lavoro – pace, occupazione, formazione, ambiente, prevenzione del disagio giovanile – affidati ai rispettivi Ministeri[2] dell’epoca. Come precisa Pattarin, i lavori del Comitato hanno avuto il merito non solo di indicare l’esigenza di sviluppare politiche in ambito locale, ma di conferire, in questo modo, precise responsabilità a Comuni, Provincie, Regioni, introducendo logiche di decentramento amministrativo e di coordinamento. A prescindere da ciò, è da considerare indicativo come ancora una volta, tra i lavori delle diverse commissioni, quello riguardante la prevenzione del disagio abbia assunto una certa – quanto indiscussa – centralità. L’importanza riposta nella prevenzione del disagio, infatti, non solo ha dato seguito ad interventi legislativi di rilievo, ma ha contraddistinto – fissandone un’impostazione esclusiva – l’approccio alle problematiche giovanili per almeno tutto il decennio successivo.

Come evidenzia Tomasi, questa priorità si fondava su alcuni dati empirici che, nella seconda metà degli anni Ottanta, vedevano un elevato incremento della gravità dei reati contro il patrimonio e la persona, e un diffuso allarme sociale. È proprio in questo contesto che vengono varati due provvedimenti legislativi: il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 sulla prevenzione/cura/riabilitazione delle tossicodipendenze; la legge 19 luglio 1991, n. 216 sui minori a rischio di coinvolgimento in attività criminose.

Preme sottolineare come queste normative – mirate principalmente alle aree depresse del mezzogiorno – abbiano sortito degli effetti di natura ambivalente sul sistema delle politiche giovanili. Da un lato, infatti, furono utilizzate dagli enti locali per finanziare, metter a punto e dare avvio a progetti di prevenzione a favore dei giovani, dato che le risorse messe a disposizione a livello nazionale rappresentavano l’unica possibilità per dare continuità a certe esperienze già attivate o per attivarne di nuove. Dall’altro, tracciavano «una linea di demarcazione larga e netta fra normalità e devianza» (Tomasi, 2000: 56). Tale approccio, infatti, ancorava le politiche giovanili ad una prospettiva che vedeva gli adolescenti e i giovani eminentemente come soggetti a rischio, anziché come risorsa della società futura su cui investire. Alla base degli interventi finanziati – e dei progetti presentati – si poneva, quindi, non la condizione giovanile come tale, bensì il bisogno conclamato, la concentrazione della criminalità in certi territori, lo status di tossicodipendente, il rischio incombente di devianza ecc. Come sottolinea Mesa, con il passare del tempo, tale prospettiva avrebbe inoltre favorito «la diffusione di una rappresentazione “manichea” del mondo giovanile tendente a distinguere nettamente tra normalità e devianza a discapito di una visione più articolata, capace [al contrario] di ricondurre determinati atteggiamenti e comportamenti nell’ambito delle sperimentazioni e ricerche tipiche di una condizione di cambiamento individuale e sociale» (Mesa, 2006: 119).

Nella seconda metà degli anni Novanta, l’iniziativa più innovativa a livello nazionale – che si configura come vero e proprio spartiacque rispetto al periodo precedente – è rappresentata dalla legge n. 285, presentata dal Ministro per la solidarietà sociale nel febbraio del 1997. Approvata il 28 agosto e intitolata “Disposizioni per la promozione di diritti ed opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, tale legge promuove ed incentiva la progettualità degli enti locali sia nel campo del disagio conclamato, sia nel campo della partecipazione dei minorenni e della promozione dei loro diritti, prevedendo, in questo modo, una sorta di bilanciamento tra i due orientamenti.

La legge in questione, dunque, oltre a rifinanziare fino al 1999 la 216/91 sulla prevenzione della devianza e criminalità minorile, introduce un fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza per finanziare anche – e in un’ottica innovativa – progetti e servizi rivolti alla ordinaria condizione di vita. Dunque, a differenza delle leggi dei primi anni Novanta, quest’ultima non incorpora un approccio emergenziale o riparatorio, ma parte dal presupposto di una positiva affermazione dei diritti del fanciullo. Seppur concepita per interventi rivolti esclusivamente ai minori, introduce, in definitiva, una nuova prospettiva d’intervento che fonda la sua azione su un approccio di tipo promozionale, oltre a dare avvio – per la prima volta – ad una nuova logica di lavoro sociale, basata sulla pianificazione locale degli interventi.

La logica di lavoro, sopra menzionata, promuoverà una cultura della pianificazione in campo sociale (sostituendo la logica della progettazione), anticipando quello che sarà il modello di lavoro adottato nella legge quadro del sistema integrato di interventi e servizi sociali (Legge-quadro n.328/00). Tale legge affida ad organismi locali di pianificazione (i cosiddetti Uffici di piano) la gestione dei diversi settori d’intervento con i relativi finanziamenti. Pur tuttavia, in questo contesto di forti mutamenti – che prevede un netto cambiamento di rotta nelle strategie di gestione del welfarele politiche giovanili non rientreranno in maniera organica nella pianificazione territoriale. Infatti «nell’articolato della L. 328/00 […] non si fa menzione degli interventi sui giovani in quanto tali perché non considerati in sé categoria a rischio o necessitante assistenza sociale» (Mesa, 2008: 80). Considerato che la legge in oggetto ha tra i suoi scopi quello di riorganizzare le diverse leggi di settore in materia di interventi sociali, e constatata inoltre la mancanza di una legge di settore sui giovani a livello nazionale – che dovrebbe prevedere un relativo fondo di finanziamento – anche un’inclusione teorica dei giovani nel sistema di pianificazione risulterebbe un’operazione difficilmente fattibile.

Dopo un lungo periodo di stasi – che registra nel complesso pochi interventi a favore dei giovani – nel maggio del 2006 viene istituito dal governo italiano il Ministero per le politiche giovanili e le attività sportive (Pogas). A tale ministero viene conferita la delega per le funzioni di competenza statale in materia di sport, e per le funzioni che concernono  l’indirizzo e il coordinamento in materia di politiche giovanili. La preoccupazione principale e, allo stesso tempo, una delle finalità prioritarie in seno agli interventi nazionali consiste nella rimozione degli ostacoli strutturali, che impediscono ai giovani di compiere il processo di transizione alla vita adulta.

“Dunque dal 2006, anno di costituzione del Ministero alla gioventù, sono state adottate logiche più promozionali ed innovative nel lavoro con i giovani. Inoltre sono stati elaborati sia un Piano Nazionale Giovani nel 2007 (presentato dalla Ministra Melandri e relativi risultati), che le Linee Guida nel 2008, da parte della Ministra Meloni. Interessante è il “Piano Operativo Nazionale 2007/2013 Per la gioventù”, pubblicato nel febbraio 2009 dal Ministero, nell’ambito dell’Obiettivo Convergenza (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), per il rafforzamento delle capacità di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. In questo documento sono ripresi gli obiettivi delle politiche giovanili fino al 2013, nell’ambito del Quadro Strategico Nazionale.
L’azione del Ministero per i primi anni è stata di slancio ad una nuova progettualità per colmare il gap con gli altri Paesi europei in questo ambito.
Il Fondo Nazionale per le Politiche Giovanili, istutuito a partire dal 2007, con 130 milioni di euro per i primi tre anni, ha permesso lo sviluppo di azioni di interesse nazionale, ma anche il coinvolgimento attivo delle Regioni in sede di Conferenza Unificata, dove avvengono le intese sulla ripartizione del Fondo tra Stato, Regioni, Province e Comuni. Questo Accordo viene rinegoziato annualmente e, nel 2013, l’Intesa del 17 ottobre ha visto la riduzione a circa 5,3 mln di risorse per il Fondo nazionale.” [Fonte: Politichegiovanili.it]

In questo modo si è verificato, a livello nazionale, un netto e sostanziale cambiamento di registro in materia di politiche giovanili, in quanto si tende a privilegiare un approccio più generale in luogo di quello specifico, adottato tradizionalmente nel contesto italiano. Infatti – come visto – gli interventi sono stati per lo più calibrati o sulla prevenzione delle devianza e della criminalità, oppure in seguito – cercando una sorta di contro-bilanciamento – anche sulla promozione dell’aggregazione e della partecipazione attiva alla comunità locale.

In tutto questo però è sempre mancata una visione ad ampio raggio, che tenesse conto delle variabili strutturali tipiche del mondo giovanile, e che oggi, più che mai, trova sempre più spesso ingenti difficoltà a compiere il passaggio all’età adulta. Nonostante ci siano stati questi ulteriori sviluppi – seguiti da significativi cambiamenti – sul terreno della politica nazionale, non esiste attualmente una legge quadro sulle politiche giovanili.

[1] Per politiche giovanili si identificano, per via generale, «tutte quelle azioni e norme, promosse o riconosciute dalle istituzioni politiche, mirate alla piena realizzazione dei diritti dei cittadini in età giovanile» (Mesa, 2006: 111). Tali politiche possono presentarsi – e quindi essere distinte – in due diverse accezioni (Mesa, 2006).

  • L’accezione specifica ha come finalità la partecipazione dei giovani alla vita sociale e civile della collettività e, per questo, fa riferimento a quegli indirizzi o provvedimenti che riguardano esclusivamente la categoria dei giovani. In questo modo si cerca di rispondere alle varie necessità che derivano dalla loro specifica condizione.
  • L’accezione generale, invece, tiene conto della valorizzazione – e con essa l’accrescimento – dell’autonomia individuale dei giovani nella prospettiva di un loro inserimento societario. Ecco perché, in quest’ottica, si fa riferimento a tutti quegli interventi che vengono attuati in diversi settori – come ad esempio le politiche dell’istruzione, le politiche dell’occupazione, della casa, della cultura – nell’ambito dei quali si prevedono delle specifiche attenzioni per i giovani, ma che di per sé non sono ad essi esclusivamente indirizzati.

Gli interventi e le azioni che rientrano nell’accezione specifica, pur non riuscendo ad esaudire per intero il campo delle politiche giovanili, consentono di mettere in luce gli aspetti peculiari di queste politiche (Mesa, 2006). Diversamente, poiché gli interventi generali rientrano in ambiti potenzialmente riferibili al resto della popolazione, viene sottratta loro quell’esclusività verso il mondo giovanile tipica dei primi. Per questo motivo, in questa trattazione, si concentrerà l’attenzione sull’evoluzione delle politiche giovanili facendo esclusivamente riferimento all’eccezione specifica.

[2] Come evidenzia Mesa, i Ministeri ai quali erano affidati i cinque gruppi di lavoro erano rispettivamente: Ministero degli Esteri, del Lavoro, della Pubblica istruzione, dell’Ambiente e degli Interni.

Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )

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Bibliografia di riferimento

Tomasi L. (a cura di), 2000, Il rischio di essere giovani. Quali politiche giovanili nella società globalizzata?, Milano, Angeli.

Ranci C., 1992, Le politiche per i giovani in Italia, in Neresini F., Ranci C., Disagio giovanile politiche sociali, Roma, Nis;

2004, Politica sociale, Bologna, Il Mulino.

Pattarin E., 2002, Tratti di gioventù. Le politiche sociali giovanili, Roma, Carocci.

Mesa D., 2006, L’incerto statuto delle politiche giovanili in Colombo M., Giovannini G., Landri P. (a cura di), Sociologia delle politiche e dei processi formativi, Milano, Guerini Scientifica;

2008, Il ruolo dell’ente locale nell’evoluzione delle politiche giovanili in Italia in Colombo M., (a cura di), Cittadini nel welfare locale: una ricerca su famiglie, giovani e servizi per i minori, Milano, Angeli.

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