Politica industriale e innovazione: ecco il Modello Tedesco

modello tedesco

Ancora nel 2004, il saldo tra cittadini dei principali paesi comunitari che arrivavano in Germania e tedeschi che se andavano era negativo per quasi 40.000 unità. Nel 2012, riporta il quotidiano Frankfurter Allgemeine (25/05/2014), il saldo è positivo per quasi 70.000 unità. I “nuovi” immigrati provengono soprattutto dall’Italia (+32.000) e la Spagna (+22.000): di fronte alla crisi occupazionale che sconvolge i loro Paesi, hanno deciso di esercitare l’opzione della defezione[1]. Sono, in maggioranza, giovani altamente qualificati; spesso anche più della popolazione locale ed è per questo che le imprese tedesche sono ben felici di accoglierli (con stipendi adeguati).

Questi dati, molto più di tante analisi, dis-velano il gioco a somma zero dell’Unione Monetaria Europea, un progetto di natura squisitamente “politica” – e contro ogni razionalità economica – che le classi dirigenti francesi e italiane hanno cocciutamente voluto portar avanti negli anni Novanta per privare la Germania della sua “bomba atomica economica”, il Marco.  Salvo poi scegliere di adottare, con il Trattato di Maastricht (1992), la “costituzione materiale” tedesca : banca centrale con poteri circoscritti e inadeguati, austerità di bilancio pubblico, regole antitrust autolesionistiche, nessun coordinamento intra-europeo delle aliquote fiscali e dei salari.

Risulta evidente che vi sia stata, da parte delle élite europee di allora, una miope sottovalutazione delle grandi capacità di resilienza dell’economia e della società tedesca ai grandi shock che l’hanno colpita alla fine del secondo millennio.  A cominciare dalla riunificazione politica e monetaria. La decisione del cancelliere democristiano Helmut Kohl di fissare la parità di cambio tra Ost e West Mark, in particolare, aveva generato una drammatica desertificazione industriale della Germania orientale: prodotto interno lordo crollato del 44%, produzione industriale giù del 67%, due milioni di occupati in meno, reddito pro capite degli Ossis scivolato a un terzo di quello dei Wessis, massiccia emigrazione[2].

Per non lasciare definitivamente morire quei territori, il nuovo Stato federale decise di investirvi una colossale quantità di denaro: circa 1140 miliardi di euro nel periodo 1990-2005, racimolati per la maggior parte emettendo obbligazioni, poi attraverso tasse di solidarietà dei cittadini dell’Ovest e i fondi europei per lo sviluppo e la coesione sociale[3]. Le città vennero, a fatica, ricostruite, le infrastrutture modernizzate, le persone aiutate a riprogettare là, in quei luoghi, la propria vita, con l’aiuto dei sussidi pubblici. Il gap tra Germania Est e Ovest in termini di reddito pro capite, qualità dei servizi pubblici e dotazione delle infrastrutture si ridusse in pochi anni . Ma per l’intero Paese il conto fu salato: il debito pubblico esplose[4], la disoccupazione salì all’11% del totale (5 milioni di persone), gli investimenti e la produttività delle imprese crollarono.

capitalismo di borsa o di welfareLa via tedesca al capitalismo, l’economia sociale di mercato (Soziale Marktwirtschaft)[5], quel modello renano capace di combinare efficienza produttiva e giustizia sociale – e per questo celebrato da tanta letteratura economica (da Michel Albert a Ronald Dore) – sembrava all’inizio del nuovo millennio destinato a soccombere. Troppo attraente e dinamico appariva allora il capitalismo anglosassone, con il mito dei mercati finanziari e delle startups della new economy, rispetto a quello tedesco, specializzato nei settori nati dalla seconda rivoluzione industriale, ingessato in relazioni industriali antiquate, con i sindacati seduti fianco a fianco ai rappresentanti degli azionisti nei consigli gestionali dell’azienda.

Se il vangelo neoliberista ha fatto proseliti quasi ovunque in Europa, in Germania ha attecchito solo in parte. Certo, il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, con il suo sodale Peter Hartz, ha fatto dimagrire lo Stato Sociale e deregolamentato una parte consistente del mercato del lavoro, creando figure atipiche e precarie, a bassi salari e senza contributi previdenziali. Oggi  questi working poors hanno raggiunto la patologica cifra di 8 milioni, il 22% degli occupati totali (dati Ocse), tanto da rendere non più procrastinabile l’introduzione di un salario minimo stabilito per legge.

Ma la determinante principale del successo tedesco non è la flessibilità (leggi: precarietà) della forza lavoro, come molti tifosi del pacchetto di riforme “Agenda 2010”  di Schroeder vorrebbero far credere. Il fattore chiave è la politica industriale.  La Germania – disobbedendo alle prescrizioni dei cantori dell’economia finanziaria – non ha smantellato la propria base produttiva, il suo sistema industriale. Ha capito per tempo che le economie avanzate potranno generare buona occupazione nei servizi, mantenere il Welfare, indirizzare lo sviluppo economico verso la sostenibilità ecologica, sopravvivere alla spietata competizione globale, solo conservando un sistema manifatturiero fortemente orientato all’innovazione.

In questa prospettiva,  l’intervento pubblico –  nel caso tedesco, attraverso centri di ricerca applicata come la Fraunhofer Gesellschaft e il veicolo finanziario compartecipato da Lander e Governo federale Kredit fuer Wiederaufbau (KfW) – gioca un ruolo cruciale. Così come il modello di corporate governance che domina nella media e grande impresa del Paese – la Mitbestimmung – che dà voce ai lavoratori nelle decisioni aziendali più importanti, prevenendo delocalizzazioni e arbitrii nei licenziamenti. Non è un caso che la protezione legislativa di chi lavora nella manifattura sia in Germania una delle più rigide d’Occidente.

L’aumento del valore aggiunto per ora lavorata è così ottenuto con investimenti in Ricerca e Sviluppo che approssimano il 3% del prodotto (79,4 miliardi l’anno); con un sistema di scuole tecnico professionali che alterna apprendimento in classe e sul posto di lavoro (duale Ausbildungssystem); con università pressoché gratuite e di altissima qualità . Non attraverso la compressione fiscale e salariale o i lunghi orari di lavoro. Come mostra la tabella sotto, un’ora di lavoro è pagata 32 euro in Germania, 22 in Italia. Un dipendente dell’industria manifatturiera tedesca guadagna circa 37mila euro lordi all’anno, contro i 26mila di un suo omologo in Italia, lavorando poco più di 1400 ore l’anno contro 1680. Infine, la distribuzione del valore aggiunto è molto più egalitaria a Nord delle Alpi: la quota che va a remunerare il lavoro è il 67% in Germania contro il 60% in Italia.

 

Tab. 1: Alcuni indicatori economici riferiti all’Industria manifatturiera.

Fonte: Elaborazione su dati Ocse, Stan Database for Structural Analyses e Istat, struttura e competitività delle imprese

Ita ger

Alla luce di queste considerazioni, è forse giunto il momento che il grande tema della politica industriale – che non è tabù negli USA, dove il governo Obama ha salvato Chrysler, così come non lo è in Cina, Brasile, Russia, Francia –  si riaffacci anche nel cortile di casa Italia. Dove purtroppo è convinzione diffusa che si debba abbandonare la manifattura per specializzarsi su turismo e servizi scadenti, proseguendo un processo di desertificazione industriale e svilimento del capitale umano che dura ormai da decenni.

 

 

NOTE: 

[1] Albert O. Hirschman, Lealtà, Defezione, Protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato, Bompiani, 2004

[2] Vladimiro Giacchè, Anschluss. L’Annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, 2013

[3] Secondo il quotidiano die Welt, il costo complessivo della riunificazione (1990-2013) sarebbe di 2mila miliardi di euro, una cifra che approssima quella del debito pubblico italiano.

[4] Il debito pubblico tedesco è cresciuto dal 1990 al 2005 di ben 980 miliardi di euro: dai 473 mld di fine 1989 ai 1453 del 2005 (H. W. Sinn, Basar-Ökonomie Deutschland – Exportweltmeister oder Schusslicht?,  2005).

[5] Il paradigma dell’”economia sociale di mercato” è stato sviluppato dagli economisti e giuristi riuniti intorno alla rivista “Ordo” e alla Scuola di Friburgo, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta del Novecento. Fortemente critici verso il collettivismo socialista e l’interventismo statale di stampo keynesiano (politica che nel Paese ha connotato fortemente gli anni dell’hitlerismo), essi rigettano però anche la concezione minimalista dello stato propria del liberismo anglosassone, assegnando a quest’ultimo un importante ruolo di regolazione dell’economia, lotta ai monopoli e tutela della concorrenza, distribuzione del reddito e promozione delle opportunità degli individui. Per approfondire si veda Bolaffi, Cuore Tedesco, Donzelli, 2013, pp. 213-37.

 

Federico Stoppa

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5 pensieri su “Politica industriale e innovazione: ecco il Modello Tedesco

  1. Segnalo:

    1) Questa analisi della Banca d’Italia, con un raffronto con la Germania Est (in 40 anni, la politica straordinaria ha speso nel Sud non più dello 0,7 per cento del Pil; per contro, per osservatori autorevoli tedeschi, “l’unità nazionale è un valore che trascende la logica economica, per il quale può ben valere la pena sacrificare il 5 per cento del PIL” – maggiore di quello italiano – secondo le regole del federalismo cooperativo (Politikverflechtung), che costituisce il carattere saliente del modello politico tedesco. Secondo stime non ufficiali i trasferimenti lordi sarebbero ammontati per il periodo 1991-2003 a 1.250-1500 miliardi di euro, equivalenti a una media di 96-115 miliardi annui) (pag. 486).

    Fai clic per accedere a 2_volume_mezzogiorno.pdf

    2) Questa buona notizia, che riguarda addirittura il Rinascimento industriale dell’Italia, atteso che uno dei punti deboli dell’Italia e di cui, appunto, molto si discute è la bassa produttività, poiché nei calcoli macroeconomici, al numeratore non va la “quantità” dell’output ma il “valore”, che risente anche del livello degli investimenti (in macchinari, ricerca e sviluppo, e innovazione di prodotto e di processo) e quindi del valore aggiunto dei prodotti. Sotto questo aspetto, l’Italia (prodotti “poveri”, salari “poveri”, ecc.) sta messa male rispetto ai Paesi di confronto, in particolare la Germania.
    “Rinascimento in vista per l’Italia”
    http://www.businesspeople.it/Business/Economia/Rinascimento-in-vista-per-l-Italia_64203

  2. Ricordiamoci però che nel ’98 la situazione era invertita, il Pil tedesco cresceva molto meno di quello italiano. Sicuramente le varie riforme a partire da quella del mercato del lavoro hanno contribuito sull’economia ma il salto di qualità l’hanno fatto con l’euro.
    ”Appena nato l’euro, la solidarietà dei tedeschi verso i PSE è evidentemente finita subito dove cominciava il loro portafoglio.”
    Comunque più che copiare, (perché si può anche copiare male) basterebbe riconoscere i propri punti forti e ripartire da quelli.. stiamo parlando dell’Italia, cultura, arte, storia .. etc etc

  3. Pienamente d’accordo sul fatto che l’euro abbia favorito l’economia tedesca, l’ho scritto all’inizio. Aggiungerei che le classi dirigenti francesi e italiane hanno la loro buona parte di responsabilità per come è stata costruita l’Unione Monetaria.
    ..”Basterebbe riconoscere i propri punti forti e ripartire da quelli”. Vero. Questa frase può essere compendiata nel termine “Politica Industriale”. Ecco, la Germania ha una politica industriale, noi no. In questo vorrei che le assomigliassimo di più.

  4. siamo della stessa idea, ma l’industria tedesca è al 50% basata sull’energia atomica, il fruttare di essa le permette di reinvestire su molti campi. Non è un proprio un piccolo dettaglio!

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