
Chissà quante volte vi è successo di stare lì, mezzo sbadigliando e mezzo finto/a-attento/a, a sorbirvi una litania di questo tipo: “Le facoltà umanistiche non servono a nulla! E che fai dopo, me lo spieghi? Il letterato? Il filosofo? Come pensi di mangiare, eh? Con due chiacchiere da prestigiatore che, forse, si spera, almeno quello, riuscirai a mettere insieme dopo la laurea?…
Caro alunno, in una prospettiva di lavoro futura, è consigliabile scegliere sempre le materie scientifiche, e non ti sbagli: quelle sì che sono ricercate sul mercato del lavoro, ti danno sicuramente uno sbocco, e lo dicono, pensa un po’, anche le molte proiezioni statistiche che si spendono a iosa sul tema”…
Ora, non so se “consigli” di questo tipo vengano ancora inculcati nelle scuole a giovani menti inesperte e impaurite, ingabbiate nei labirinti della scelta per un futuro che, anche se ci fosse, sarà sicuramente buio, funambolico e burrascoso. Ma se fosse davvero ancora così verrebbe da riderci un po’ sopra credo, dato che, anche se uno studente varcasse la soglia dell’università e scegliesse l’una o l’altra via, le cose non cambierebbero poi così molto: il lavoro comunque non c’è da nessuna parte, si è letteralmente disperso, prosciugato sin dall’indotto.
Al di là dei soliti discorsi molto tristi e rompipalle sulla crisi, e sul lavoro che non c’è, e sulle difficoltà che si trovano per avere anche una minima risposta dopo aver presentato una carta straccia di CV che ha la presuntuosa pretesa di riassumere e di riassumerti per quello che sei diventato e per tutto ciò che hai collezionato sino a lì, beh, passiamo ad altro.
Eh sì, perché è meglio guardare altrove e bere tanta birra o svariati cuba libre (come vorrebbero mie care conoscenze) e fottersene altamente, giusto? Dato che ormai si è palesemente rotta quel tipo di solidarietà che vede come protagonista l’incontro-dialogo tra le generazioni. Il cosiddetto “patto generazionale”; sì, quello lì. E dunque, a questo punto: Responsabilità. Responsabilità. Responsabilità. Quante volte al giorno sentiamo o leggiamo questa parola? Dio santo, non se ne può più! Ora si ricordano? Che ci hanno rubato praticamente ogni barlume di futuro e che si sono presi letteralmente tutto di quel poco, caduco, che era rimasto? Vergogna. Dopo una sbronza colossale si sono ritrovati nel post-festa con bottiglie pavimentate e rotte e ovunque e, con un gran mal di testa, continuano a brontolare: Responsabilità. Poveri, davvero.
Quello che volevo dire però è che, dopotutto, loro hanno fatto il loro e hanno attinto ogni tipo di risorsa dai rubinetti nazionali, e su questo non ci piove. Il problema però non è solo in casa nostra, il problema è anche europeo e anche e soprattutto globale, assieme: purtroppo dei casini che hanno combinato loro, non solo devono risponderne ai loro figli, ma anche ai figli degli investitori esteri che, diciamolo, sono stati un tantino più sobri dei nostri vecchi – sì, si sono sballati anche loro, ma in maniera più consapevole, ecco, come dire: in modo decisamente più responsabile!!
Ed ecco che si sono risvegliati, sempre ciondolanti e puzzosi di festini alcolici, accompagnati per le strade della città da guardie del corpo impeccabili dentro macchine lucenti e blu. Sì, proprio così: blu-notte-non-sognarti-di-cacarmi-neppure-di-striscio. E si sono accorti, non si sa come, che devono rispondere ai proverbiali dettami europei, che vedono come protagonista indiscusso il delicatissimo bilanciamento tra sviluppo economico e coesione sociale; sviluppo e coesione sociale costituiscono le parole d’ordine delle politiche europee impegnate a trovare un punto di equilibrio tra le due prospettive, a combinare la competizione con l’equità e l’economia con la società. Operazione non semplice da realizzarsi in presenza di un diffuso orientamento politico-economico (vedi le materie scientifiche sono più fighe) che identifica lo sviluppo con la crescita del Prodotto Interno Lordo e subordina la produzione di educazione e socialità – che è creazione di organizzazione sociale – alle ragioni prioritarie dello sviluppo economico (Vedi “Materie umanistiche? Cosa?”).
Ed ecco che arriviamo all’inizio. Se un ingegnere deve investire la propria istruzione e il suo lavoro sugli improrogabili criteri dell’efficienza e dell’efficacia, e dunque su un mercato del lavoro che pompa e spinge e adora unicamente lo sviluppo economico delle imprese, un tipo che si occupa di “materie umanistiche” si ritrova, per forza di cose, a fare da assistente sociale a questi tipi ultra-stressati; perché questi tipi umanisti, guarda caso, hanno studiato per questo tipo di cosa quà. Ma allora la domanda è: si vive per lavorare? O si lavora per vivere? This is the problem.
Mi sa che, oggigiorno, l’americanizzazione ci ha investiti tutti, senza distinzioni, e siamo diventati burattini-consumatori del primo stile vita che è stato appena pronunciato:vivere-solo-per-lavorare(-e-consumare-e-consumare-e-consumare). Quindi cara professoressa rompicoglioni, sa cosa le dico? Bilanciamento. Bilanciamento. Bilanciamento. Lei non ascolta l’Europa? Io sì: balance. E le consiglio una sua maggiore pianificazione mentale verso un approccio educativo che abbia a cuore la mente impaurita (per quelli che si preoccupano) dei giovani che ha sotto la sua ala, affinché (il suo approccio educativo) sia rivolto più al lavorare per vivere meglio e non viceversa: vivere per lavorare sempre peggio, o, meglio ancora, vivere per non lavorare affatto. Dia una motivazione “degna di nota”, su?
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
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