Per una liberazione del lavoro

workers

Leggendo i quotidiani, ascoltando i discorsi della gente nella metropolitana, o persino quelli degli amici, durante una cena, si è colpiti dalla straordinaria centralità, direi onnipresenza, che l’economia, il lavoro, hanno assunto nelle nostre vite, oscurandone quasi tutti gli altri aspetti. Banale costatazione, si dirà. E invece no: se si stacca per un attimo lo sguardo dai problemi del quotidiano, e si adotta una prospettiva di lungo termine, ci si dovrebbe aspettare piuttosto un minor interesse da parte nostra per le questioni legate alla sussistenza materiale.

Qualche dato per motivare questa tesi. L’ammontare di merci che noi fortunati occidentali abbiamo oggi a disposizione – misurata dal Prodotto lordo pro capite – è di circa cinque volte superiore a quella che avevamo agli inizi degli anni ’30 (Jackson, 2011). Per produrle occorre un numero sempre minore di persone. Prendiamo l’Italia: ancora negli anni Settanta, il 20% dei lavoratori era impiegato nel settore primario, ora è il 4%. Negli altri paesi OCSE tale quota oscilla oggi attorno al 2-3%.

Nel settore manifatturiero, dove si sono formate la classe operaia, la Sinistra, il Welfare previdenziale e assistenziale e una robusta classe media, gli occupati nei paesi sviluppati sono in media il 15% del totale. Nel dettaglio: in Italia sono un quarto della forza lavoro totale, una percentuale relativamente elevata. In Germania, il 18%; in Giappone il 16%, in Francia il 12%, negli Stati Uniti meno del 10%. Il peso dei “colletti blu” sul totale degli occupati è sceso drammaticamente dagli anni ’70 ad oggi: di circa 8 punti percentuali in Italia, addirittura di 13 punti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, di 16 punti in Germania, 12 in Francia, 9,7 in Giappone. La globalizzazione e la Grande recessione hanno certo accelerato questo processo di deindustrializzazione, che però ha avuto inizio molto prima. E per un’altra ragione.

Quota occupati nel settore manifatturiero, in % del totale. Fonte: Ocse

quota occupati manifattura

  Composizione % occupati in Italia. Fonte: Istat

quota occupati primario secondario terziario

E’ stato infatti l’aumento senza soluzione di continuità della produttività del lavoro che ha permesso, grazie al progresso tecnologico, di produrre sempre più beni alimentari e manufatti con una quota declinante di persone. Prima in agricoltura, poi nelle fabbriche, le macchine hanno sostituito il lavoro dell’uomo, permettendogli di soddisfare bisogni fondamentali come mangiare, bere, vestirsi, curarsi, avere un tetto, disporre di beni di consumo durevole, affrancandolo (solo apparentemente, come vedremo) dalla maledizione biblica del lavorare con il sudore sulla fronte per sopravvivere. Un risultato straordinario.

John Maynard Keynes era sicuro che – di questo passo – entro il 2020 lo sviluppo della tecnologia ci avrebbe consentito di lavorare tutti per 3-4 ore al giorno. Secondo l’economista britannico, una volta risolto per sempre il problema economico, le popolazioni affluenti avrebbero potuto dedicarsi alle cose veramente importanti della vita: la cultura, l’arte, l’aiuto disinteressato di chi è in difficoltà.

In parte ciò si è realizzato. La maggior produttività del lavoro nel settore primario e secondario ha fatto crollare i prezzi dei beni alimentari e industriali. Tale fenomeno, assieme alle lotte sindacali e operaie dal basso, e alle riforme sociali dei governi socialdemocratici e cristiano democratici nel secondo dopoguerra dall’alto, hanno innalzato il nostro potere d’acquisto reale, e ci hanno consentito di lavorare di meno (le 40 ore, le ferie pagate, il sabato libero, la tredicesima, le pensioni)  [1].  Il maggior reddito reale si è trasformato in nuova domanda di beni e soprattutto, di servizi, generando nuova occupazione e nuovi lavori nel settore pubblico e privato. E’ cresciuta la classe impiegatizia, gli insegnanti, il personale ospedaliero, gli avvocati, i medici, i burocrati. E poi il turismo e l’industria del tempo libero, i ristoranti, le beauty farms. In sintesi: solo 1 persona su 5, nelle economie avanzate, è impegnata direttamente nella produzione di beni più o meno utili alla nostra sopravvivenza materiale. 

working hours over time

Tuttavia, nonostante questi dati attestino come il lavoro sia diventato meno urgente a causa della tecnologia, siamo molto lontani dal lavorare 15 ore a settimana come auspicava Keynes. Anzi, nelle nostre società non c’è stigma più grande di quello della disoccupazione, attribuita alla pigrizia dell’individuo e alla sua indisponibilità a sacrificarsi.

Per questo, negli anni passati abbiamo creato migliaia di lavori inutili, se non dannosi, soprattutto nel settore finanziario e amministrativo: solo per tenere la gente occupata e dargli un reddito da spendere, in modo da continuare a far girare la giostra dei consumi. Sottolinea il professor David Graeber : “non è del tutto chiaro se l’umanità soffrirebbe qualora sparissero tutti gli amministratori delegati, lobbisti, public relation managers, addetti al telemarketing, ufficiali giudiziari o consulenti legali. (Molti sospettano che il mondo, in loro assenza, potrebbe addirittura sensibilmente migliorare)”(On the phenomenon of bullshit jobs, Strike! Magazine, Agosto, 2013).

La domanda a questo punto è inevitabile: perché invece di realizzare l’(e)utopia keynesiana di un incremento del tempo dedicato ad attività piacevoli e ad alta utilità sociale, continuiamo a votare le nostre vite alla competizione esasperata, che crea ansia da prestazione, frustrazione, infelicità?

Una prima risposta concerne l’iniqua ripartizione dei guadagni di produttività. Se la maggior parte di questi se li prende il capitale, i lavoratori sono costretti a lavorare più ore per conservare lo stesso tenore di vita. Questo è quanto accaduto nelle economie avanzate negli ultimi trent’anni. Il lavoro ha lasciato sul campo ben 10 punti di PIL, intascato dai profitti e dalle rendite [2].

La concentrazione della ricchezza e dei redditi in poche mani fa si che la composizione dei beni e dei servizi che si producono e la struttura del mercato del lavoro siano giocoforza espressione delle preferenze dei più ricchi. Purtroppo le nuove élite politiche ed economiche non hanno i gusti raffinati di quelle del Rinascimento, che chiedevano cultura e arte. Piuttosto domandano gadgets tecnologici sempre più perfezionati, capi di abbigliamento à la page, cene in ristoranti esclusivi, hotel di lusso, nonché avvocati di grido, commercialisti, consulenti finanziari per gestire i loro ipertrofici patrimoni.

Seconda risposta: l’apparente insaziabilità dei bisogni non fisiologici. I consumi vistosi e lo stile di vita dei più ricchi mettono in moto un meccanismo di emulazione da parte della classe media e bassa, disposta a lavorare di più e anche ad indebitarsi pur di possedere i cosiddetti beni di status. Ciò traspare anche dagli ultimi dati Istat:  anche nel bel mezzo di una spaventosa crisi come questa, gli italiani rinunciano alle cure o risparmiano sul cibo, ma non all’ultima versione di cellulare o ai prodotti di bellezza (vedi Legrenzi, Frugalità, Il Mulino, 2014).

Resta il fatto che questo sistema è destinato prima o poi ad andare a sbattere contro un muro.

Infatti, chi genererà tutta la domanda di consumi necessaria per continuare a crescere e dare lavoro, se i salari sono sempre più bassi e l’era dell’indebitamento privato e pubblico è giunta alla fine? Quali meccanismi verranno inventati per farci continuare a lavorare, e quindi a desiderare e a spendere, se il progresso tecnico sostituirà nei prossimi anni con macchine super intelligenti la metà dei lavori attuali?

E pensare che mai come ora avremmo l’occasione di realizzare un antico sogno: servirci della tecnologia per liberare definitivamente il lavoro dalla sue componenti di alienazione, noia, ripetitività. Un lavoro che, lungi dal rappresentare soltanto una mera fonte di sopravvivenza o profitto per chi lo compie, sia diretto piuttosto alla piena realizzazione del sé.

In tedesco, la parola Beruf presenta la doppia accezione di professione lavorativa e vocazione. “Was bist du von Beruf?” può essere reso sia con “Che lavoro fai? che con “Qual è la tua vocazione?” [3].  E’ un retaggio dell’etica protestante, che compie nel XVI sec. una clamorosa riabilitazione del lavoro; non più spiacevole sudore sulla fronte che il credente deve evitare ad ogni costo per dedicarsi all’ascesi della preghiera, ma via maestra per raggiungere la pienezza della vita religiosa. Ciascuno di noi ha la sua vocazione, la sua chiamata, non solo i mistici e i preti, dice Lutero: rispondere a questa chiamata significa coltivare i propri talenti, far bene il proprio lavoro; il compito supremo che il cristiano ha su questa Terra. E aggiunge Primo Levi nella Chiave a Stella: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”.

Il punto di partenza per edificare una nuova “civiltà del lavoro” sta nel comprendere che il problema economico, almeno nel Primo Mondo, è risolto, che siamo saturi di merci e non abbiamo bisogno di altre. Per questo, la crescita illimitata del PIL è un obiettivo stupido da perseguire, oltre che esiziale per la tenuta dell’ecosistema. Dovremmo invece concentrarci su come distribuire in modo più equo la ricchezza prodotta. Utilizzare gli incrementi di produttività per aumentare il tempo libero dei lavoratori e non per espellerli. Indirizzare l’innovazione e la ricerca verso produzioni a minimo contenuto di materia-energia e riequilibrare il rapporto tra beni pubblici e privati. Sviluppare posti di lavoro in settori a basso rischio d’automazione, capaci di creare soddisfazione e godimento sia per chi produce che per chi consuma: cultura, arte, cura della persona, artigianato. Promuovere quell’economia della partecipazione e della cooperazione che ci hanno descritto, nei loro lavori visionari, James Meade e Martin Weitzman. Sostituire un obsoleto Welfare monetario basato su pensioni e sussidi di disoccupazione e pensato per operai di grandi fabbriche fordiste e impiegati a tempo indeterminato, con un reddito di cittadinanza che ci tuteli dalla ciclotimia del capitalismo post-moderno [4].

Sono tutte cose fattibili. Ma dobbiamo liberare la nostra mente prigioniera. Bisogna guardare con occhi diversi alla produzione, al consumo, al risparmio, all’occupazione. Al futuro. Le lenti che abbiamo utilizzato finora sono da buttare. Va inventata una nuova saggezza per una nuova era. E, nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo seguire il consiglio di Keynes: apparire eretici, problematici e disobbedienti agli occhi di chi ci ha preceduto.

Federico Stoppa

NOTE:

[1] “Per (permetterci) una lavatrice nuova lavoriamo in media non più di 3 giorni (nel 1960: 27 giorni), per dieci uova solo 8 minuti (nel 1960: 51 minuti).  Spendiamo solo il 15% dei nostri bilanci familiari per gli alimenti […]nel 1970 era il 25%” Dieter Schnaas, Das Bedrohnte Idyll, in “Wirtschafts Woche”, April 2014.

[2] A questo proposito, è clamoroso quanto accaduto negli Stati Uniti dagli anni Ottanta in poi. Nonostante il pil pro capite statunitense sia cresciuto di tre volte in termini reali, quasi i due terzi di questa crescita sono andati all’1% più ricco della popolazione, che ora si appropria del 20% del reddito totale (contro il 10% negli anni ’80). Inoltre, la quota di reddito nazionale che va allo 0,01% delle famiglie più ricche americane è quadruplicata: dall’1% negli anni  ottanta al 5% attuale. (Cfr. Gallegati M., Stiglitz J., Se l’1% detta legge, in MicroMega, marzo 2013).

[3] Contrariamente,  nelle lingue neolatine, l’etimologia della parola “lavoro” conserva un connotato negativo: trabajo in spagnolo, travail in francese, che rimandano al travaglio, al dolore, alla sofferenza. Persino in qualche dialetto italiano come quello marchigiano (oltre che nell’immaginario comune), lavoro e fatica sono inscindibili.

[4] Per approfondire queste idee si rimanda all’ultimo libro di Mauro Gallegati, Oltre la siepe. L’economia che verrà, Chiarelettere, 2014, oltre che ai contributi di Tim Jackson, Prosperità senza Crescita. Economia per il pianeta reale, Edizioni Ambiente, 2011, e di Robert e Edward Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori, 2013.

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2 pensieri su “Per una liberazione del lavoro

  1. Se la profezia di John Maynard Keynes si fosse avverata in toto sarei la prima a gioire… purtroppo oltre al calo delle monete che tutti i elaborati grafici ci mostrano ogni giorno… c’è stato un calo nel valore effettivo del tempo che si impiega nel lavoro e un eccessivo aumento di costo del tempo libero… il lavoro nobilita l’uomo e siamo d’accordo ma sui libri di storia (per me) un giorno scriveranno del lavoro che non nobilita nessuno ma adirittura rende schivi… quasi che gli stessi lavoratori ne vorrebero sempre di più, e se non c’è possono compiere gesti talvolta anche molto tragici e definitivi… impariamo ad amare ciò che facciamo e ad amarci… non essere “dipendenti” da niente e padroni di noi stessi!!! Bravo Federico!

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