I giovani come problema sociale: tratti di una nuova condizione “diffusa”

Sebastian Tory-Pratt
Sebastian Tory-Pratt

La conclamata questione del “fenomeno giovanile” si ripropone, sugli scenari urbani, come vecchia e nuova problematica sociale. Si pensava, infatti, che l’urbanizzazione, in concomitanza con l’aumento del livello della qualità della vita, avrebbe addolcito i costumi e che l’educazione, assieme ad una formazione prolungata, avrebbe allontanato cattive abitudini – spesso pericolose – tipiche degli individui in giovane età. Il paradosso attuale è che gli ordini di fattori crescono insieme.

Considerata, quella giovanile, una categoria di per sé ambivalente, in quanto depositaria di speranze e paure ma anche di problemi e di risorse, tuttavia l’attenzione sociale tende a focalizzarsi maggiormente sulle preoccupazioni, le inquietudini che ad essa fanno inequivocabilmente riferimento: si allude, in prima istanza, alle  «incognite che emergono dal presentarsi all’interno dello spazio sociale di un soggetto politico che si pone progressivamente in posizione di esplicita opposizione nei confronti dei valori riconosciuti e legittimanti dalla società» (Merico, 2002: 5).

Difatti, i riflettori della politica – e del senso comune – si accendono sui giovani segnalando in loro un problema sociale quando i meccanismi di controllo perdono efficacia o, comunque, non sono più in grado di modificarsi in relazione alle trasformazioni sociali. In conseguenza di ciò, vengono attivati tutta una serie di dispositivi atti alla conoscenza di questo mondo, proprio perché ne emerge un problema di governabilità e di controllo del comportamento, ma anche delle potenzialità del mutamento ad esso correlate. In questo senso, quando ci si rapporta alla diversità del mondo giovanile, si coglie appieno la contrarietà dei punti di vista che nascono dalle considerazioni elaborate a riguardo. Infatti, da un lato si sedimentano i timori dovuti alla percezione dell’emergere di una frattura interna alla società, dall’altro questa stessa frattura è ritenuta capace di svolgere un ruolo decisivo nel processo di innovazione, perché – in questa precisa ottica – i giovani sono considerati risorse indispensabili per l’arricchimento della società.

Dopotutto, a prescindere dalla divergenza di tali vedute, e per poter dialogare efficacemente con le nuove generazioni, come sostiene Rinaldi, le istituzioni pubbliche necessitano di una conoscenza accurata delle specificità, delle potenzialità e delle problematiche dei giovani e dei loro stili di vita, in luogo di una visione riduttiva ed omologante che si presta a facili strumentalizzazioni. A questo proposito, infatti, nella maggioranza dei casi, i giovani vengono costruiti e si costruiscono come categoria monolitica, come un gruppo autonomo per differenza da… comportando, in questo modo, lo sviluppo della percezione – divenuta ormai dominante nel senso comune – di una «sostanziale segregazione giovanile, nei tempi, nei luoghi, nelle forme di espressione e di identità» (Merico, 2002: 4).

Per cogliere appieno il perché si è giunti a tale interpretazione, si cercherà ora di approfondire come, con il passare del tempo, e a seguito di significativi mutamenti sociali, la caratterizzazione dell’età giovanile abbia assunto una tale – e questo tipo di – rilevanza nell’immaginario sociale e collettivo. La questione di cosa si debba intendere per giovinezza ha proposto molteplici soluzioni, anche tra loro discordanti, e questo porta ad affermare che non è stata trovata a tutt’oggi – o, come sostiene Merico, forse non si potrà mai trovare – una risposta univoca ed universale al suddetto quesito. In certe situazioni, tuttavia, si opta per soluzioni per così dire temporanee, necessarie – ad esempio – per costruire ed individuare una popolazione di riferimento nell’ambito di una ricerca empirica.

Il problema, infatti, non è esente da difficoltà interpretative: c’è chi ritiene che gli individui diventino adulti per il solo fatto che il tempo scorre (punto di vista biologico); chi invece concepisce il passaggio d’età come una tacca convenzionale definita socialmente (punto di vista culturale/sociale). Per i primi, quindi, basterebbe semplicemente assecondare i naturali ritmi di crescita per consentire il passaggio all’età adulta; diversamente, per i secondi questo passaggio è del tutto contingente, quindi dipendente da qualche variabile sociale o culturale e, per questo, manipolabile. Detto ciò, come sostiene Merico, si può affermare in definitiva che – per linee generali – la giovinezza debba essere intesa in primo luogo come una costruzione sociale: si è giovani perché la società o la cultura alla quale si appartiene individua delle esigenze specifiche e le assegna ad una fase della vita.

Il riconoscimento di una specificità interna all’età giovanile è il risultato di un processo molto lungo, il quale si è determinato – e continua a determinarsi – in maniera progressiva. Tuttavia, è possibile individuare ciò con l’avvento della società moderna e, dunque, nella transizione dall’epoca preindustriale e a quella industriale.

Nelle società precedenti, infatti, per la grande maggioranza di coloro che erano anagraficamente giovani, non esisteva una fase della vita chiamata giovinezza, dotata di caratteristiche sociali definite. La transizione tra l’età infantile e l’età adulta era un processo graduale senza soluzioni di continuità: «i ruoli adulti venivano appresi ed esperiti precocemente quasi sempre attraverso l’imitazione dei modelli familiari o parentali» (Cavalli, 2002: 54).

In queste società pre-moderne, tuttavia, l’assenza della gioventù era riferibile solamente alle classi sociali minoritarie e/o marginali. Difatti, l’attribuzione di determinate caratteristiche a questa fase della vita era una prerogativa – se non un privilegio esclusivo – delle classi superiori, nelle quali la giovinezza si configurava come un periodo di semidipendenza e di attesa: scandiva un processo incrementale del tutto prevedibile, che avrebbe consentito agli individui di transitare nel mondo adulto. Si trattava «di un processo non sempre lineare, anzi pieno di turbamenti, talvolta portatore di conflitti tra generazioni, ma comunque processo nel senso di complesso di pratiche sociali, norme e comportamenti che [avevano] una finalizzazione precisa» (Cavalli, 2002: 57), cioè l’accesso a posizioni adulte appartenenti ai ceti più abbienti.

In seguito, i processi di innovazione caratteristici della società moderna, hanno determinato profonde trasformazioni nella strutturazione dei legami sociali e nelle forme di riproduzione della società. Uno degli effetti più significativi di tali mutamenti sociali è riscontrabile nell’aumento della complessità sociale. Infatti le nuove generazioni, per essere incluse nella società – e per affrontare la complessità che essa comporta – devono acquisire competenze e conoscenze che non sono più tramandate all’interno delle famiglie, ma «diventano l’oggetto di un processo di apprendimento che si svolge all’interno di istituzioni specializzate (le scuole primarie e secondarie, l’università)» (Merico, 2004: 24). Per questo motivo, la giovinezza diviene un periodo specifico della vita, in cui vengono apprese regole e ruoli della società, e si diffonde dagli strati sociali più elevati della popolazione sino ad interessare l’intera società. In un certo senso, viene democratizzata una fase della vita che si estende trasversalmente alle classi sociali.

Gioventù (pellicola) per lubats
Gioventù (pellicola) per lubats

Con la modernità, dunque, nasce una nuova definizione di giovinezza, che trova una propria collocazione strutturale nei processi formativi e nella temporanea esclusione dal mondo del lavoro. In questo modo, la segregazione delle giovani generazioni – nelle istituzioni ad esse dedicate – consente l’emergere di un processo di autoriconoscimento interno alla giovinezza stessa che accresce l’importanza della funzione svolta dal gruppo dei pari, e che sottrae i giovani da una condizione di dipendenza nei confronti dei genitori. Questo processo però, che comporta dunque una sostanziale indipendenza e distanza dei giovani dai modelli culturali dominanti, per la prima volta prevede – ritornando alla questione da cui si è partiti – una sorta di stigmatizzazione del mondo giovanile inteso come problema sociale. A questo proposito, come sostiene Hareven (1976), la scoperta di un’età non è legata semplicemente alle forme di elaborazione del sentire comune, ma deve essere ricondotta alle profonde trasformazioni intervenute nel contesto sociale che, a fronte dell’angoscia indotta dall’incertezza e/o indeterminatezza del mutamento sociale, inducono ad istituire particolari forme di controllo.

Le ricerche condotte in passato sui giovani tendevano, prevalentemente, a rappresentare il loro mondo come un’entità sociale fortemente omogenea al suo interno e, al contempo, particolarmente diversa rispetto alle altre età della vita. «Tale processo di omologazione dei vissuti ha finito per trascurare o, al contrario, per estremizzare le differenze e le diseguaglianze interne al medesimo universo giovanile» (Merico, 2004: 81). Come sostengono più autori, il mondo giovanile di oggi non può più essere rappresentato tramite l’ausilio di tale modello – cioè come una categoria omogenea e coerente – ma bisogna render conto che, per una sua intrinseca complessità, esso manifesta i tratti di un universo eterogeneo e molteplice.

Tale molteplicità, oltre a definirsi in base alle classiche variabili di genere, età, classe socio-economica e appartenenza territoriale, viene dedotta ulteriormente in funzione delle modalità di consumo di beni e servizi, di gestione delle attività del tempo libero, di fruizione dei prodotti dell’industria della moda e della cultura e, in ultimo, di utilizzo delle nuove tecnologie. In aggiunta a tali criteri, secondo Rinaldi, l’eterogeneità dei giovani deve essere ricondotta anche alla loro capacità di negoziazione di una specificità identitaria autonoma, dovuta, nello specifico, alla combinazione – tipica di una società post-moderna – tra le accresciute capacità riflessive del soggetto e l’incertezza e/o l’imprevedibilità del contesto socio-economico. In questo mutato contesto, quindi, «il profilo identitario che ne emerge appare ricco di sfumature contrastanti, dove si alternano capacità di adeguamento ad una realtà che lascia spazio ad infinite opportunità di scelta, con difficoltà palesi a gestire i processi decisionali quando questi si presentano come opzioni esistenziali definitive» (Buzzi, 2007).

Nel merito di quest’ultima considerazione, occorre sottolineare come alcune evidenti trasformazioni della società (vedi fenomeni come: prolungamento generalizzato della scolarizzazione; incremento dei livelli di disoccupazione; diffusione del lavoro precario, permanenza prolungata nella casa dei genitori; differimento della costituzione di un nuovo nucleo familiare) hanno comportato un effetto complessivo di allungamento costante e generalizzato del tempo necessario per entrare a far parte – a tutti gli effetti e definitivamente – del mondo adulto. Il procrastinare continuamente le scelte determinanti che consentono l’accesso al mondo adulto vede, quindi, l’età giovanile odierna non più come un processo che scandisce di per sé delle tappe certe e prevedibili che condurranno a quel mondo ma, diversamente, come una condizione allungata con delle proprie e peculiari caratteristiche. Come sostiene Cavalli «mentre un processo è un complesso di pratiche tese verso un esito prevedibile, una condizione è una situazione di attesa di un esito imprevedibile. Questa imprevedibilità dipende dal numero praticamente illimitato di esiti possibili, alcuni sufficientemente noti (e, spesso, indesiderabili), altri vagamente percepiti, altri ancora del tutto ignoti ma di cui si avverte comunque la remota esistenza» (Cavalli, 2002: 37).

Questa condizione, può essere vissuta dai giovani in modi diametralmente diversi: da un lato può essere subita in maniera passiva; dall’altro sfruttata come opportunità. Il primo caso produce la difficoltà e/o l’incapacità del soggetto di formulare un progetto di vita e, quindi, di cogliere e mettere in atto le strategie per realizzarlo. Nel secondo caso, invece, la possibilità di rimandare il proprio ingresso nell’età adulta è vista, per l’appunto, come un’opportunità di sperimentazione e ricerca di un inserimento atto alle proprie condizioni, per non abbassare il livello delle proprie aspettative. In questo modo si avrà «un confronto attivo con la realtà sociale per renderla trasparente e per tracciare in essa la traiettoria del proprio divenire» (Cavalli, 2002: 59).

In conclusione, come sostiene Rinaldi – in un’ottica di valorizzazione dei giovani e tenendo conto delle trasformazioni che essi subiscono e devono fronteggiare – risulta tangibile il rischio che i giovani diventino sempre più invisibili e si ritaglino spazi sempre più privati per esprimere la loro vera identità. Questo perché – nella maggior parte dei casi e nelle forme di intervento che li riguardano specificatamente – si continua ad ignorare uno scambio e/o una comunicazione che contempli tanto le critiche quanto i molteplici contributi che possono derivare dall’universo giovanile.

Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )

Editing grafico a cura di Edna Arauz

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Bibliografia di riferimento

Buzzi C., Cavalli A., de Lillo A., 2007, Rapporto giovani: sesta indagine dell’istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino.

Cavalli A., 2002, La gioventù: condizione o processo? in Merico M. (a cura di), Giovani come. Per una sociologia della condizione giovanile in Italia, Napoli, Liguori.

Merico M.,

2002, Giovani come. Per una sociologia della condizione giovanile in Italia, Napoli, Liguori. 2004,

2204, Giovani e società, Roma, Carocci.

Prandini R., Melli S. (a cura di), 2004, I giovani capitale sociale della futura Europa: Politiche di promozione della gioventù in un welfare societario plurale, Milano, Angeli.

Rinaldi E., 2008, I giovani tra bisogni, stili di vita e partecipazione in Colombo M., (a cura di), Cittadini nel welfare locale: una ricerca su famiglie, giovani e servizi per i minori, Milano, Angeli.

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