
La “questione urbana” – il dibattito sul futuro delle città – occupa ormai da molti anni una posizione preminente nel discorso pubblico europeo, ma non sembra attecchire in quello italiano. Nessun grande quotidiano nazionale – figuriamoci la televisione – ha dato spazio al workshop, organizzato dalla Commissione Europea a Bruxelles il 17-18 febbraio scorso, sui contenuti programmatici della nuova Agenda Urbana Europea integrata per il 2020. Un’iniziativa che ha rimarcato il ruolo strategico delle città nella realizzazione di un’economia sociale di mercato orientata alla conoscenza, inclusiva ed ecologicamente sostenibile: l’architrave del Progetto europeo.
L’Agenda urbana Europea integrata è il punto di arrivo di un lungo percorso di riflessione partito nel 1997, che ha i suoi tratti salienti nella Carta di Lipsia sulle città sostenibili (2007), nella Dichiarazione di Toledo (2010) e nel report “Cities of Tomorrow” del 2011. Un discorso maturato sullo sfondo dei grandi cambiamenti tecnologici e istituzionali – la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci e la diffusione dell’Information and communication technology nei processi di produzione – che hanno segnato la società europea negli ultimi decenni, in termini di de-industrializzazione, perdita di posti di lavoro qualificato, crisi dei bilanci pubblici, disparità sociali.
In questo contesto, l’Unione Europea ha assegnato principalmente alle città (e alle regioni) il compito di gestire le politiche pubbliche per la crescita e la coesione sociale[1]. Esse sono state così chiamate a ri-pensare, ri-progettare le proprie traiettorie di sviluppo economico di lungo periodo per attrarre individui e imprese, oltre che i finanziamenti europei. Gli agenti economici sono in cerca di città capaci di trasformare reddito in benessere e di creare un ambiente favorevole all’innovazione, tramite: infrastrutture in grado di ridurre i costi individuali e sociali della mobilità, spazi verdi ampi e diffusi, servizi pubblici accessibili, politiche dell’alloggio per i giovani.
Negli ultimi decenni, alcune città europee – Berlino, Monaco, Barcellona, Rotterdam, Amsterdam – hanno saputo ri-configurare la propria struttura economica e istituzionale, adattandola ai vincoli di tipo ecologico e alle mutate preferenze (e valori) dei cittadini e delle imprese globali. Non si può dire altrettanto per le città italiane, vittime, secondo Antonio G. Calafati (Economie in cerca di città, Donzelli, 2009) dell’incapacità – da parte di politici e società civile – di elaborare una strategia comune per mitigare gli effetti degli shock esogeni (globalizzazione, moneta unica) sui nostri territori. Un “blocco cognitivo” ci ha impedito di prendere atto che gli spostamenti quotidiani degli individui – per lavorare, socializzare, scambiare merci -, quelli che descrivono l’”area urbana funzionale” (FUA), non coincidevano più con i confini politico-amministrativi dei singoli comuni[2], e che quindi era necessario un accorpamento delle funzioni politico-amministrative locali ad un unico livello, inter (o sovra) – comunale.

Un governo unico della città si imponeva per adeguare – attraverso congrui investimenti pubblici – le prestazioni economiche e sociali dei territori italiani agli standard europei, impossibili da sostenere (finanziariamente) per il singolo comune. Nonostante gli ostacoli normativi per una simile operazione fossero venuti meno (la legge n. 142/90 individuava 9 Aree metropolitane e dava il nulla osta alla formazione delle Città metropolitane[3]), si è preferito mantenere una anacronistica poliarchia territoriale – regioni, province, 8092 comuni, di cui il 70% con meno di 5000 abitanti), che ha reso impossibile una pianificazione sistemica, generando costi sociali e ambientali enormi (dispersione insediativa, consumo e impermeabilizzazione dei suoli, carenza di servizi e spazi pubblici, infrastrutture inadeguate, congestione automobilistica, inquinamento), oltre che una straordinaria perdita di competitività economica del Paese.
D’altro canto, qualcuno che ha preso sul serio la questione urbana, in Italia, c’è stato. Nell’agosto 2012, l’ex Ministro della coesione territoriale (governo Monti) Fabrizio Barca ha istituito un Comitato interministeriale per le politiche urbane (Cipu). Ne è scaturito un Rapporto, presentato a Marzo 2013, che offre spunti di grande interesse per disegnare politiche della città all’altezza delle migliori esperienze europee. Dalla necessità di ristrutturare le reti di trasporto pubblico regionale su ferro per favorire la mobilità sostenibile, all’adozione di norme che limitino drasticamente la distruzione dei suoli; da una tassazione più gravosa sulla rendita fondiaria urbana per procurare adeguati servizi e spazi pubblici; al ritorno di una vera politica pubblica della casa, con la fissazione di quote minime di edilizia sociale nell’offerta abitativa. C’è poi il grande tema della riqualificazione urbana, a cominciare dal “rammendo” delle periferie di cui parla Renzo Piano, per proseguire con i siti industriali dismessi (si guardi, in proposito, cosa sono stati capaci di fare i tedeschi con l’ex area carbonifera della Ruhr!) e con la manutenzione degli edifici pubblici.
L’innovazione più urgente da introdurre è però di tipo istituzionale: dare un “governo” e quindi un “progetto” di sviluppo futuro alle città. Il disegno di legge Delrio – approvato alla Camera e in discussione al Senato – sembra andare nella giusta direzione. “Svuota” di poteri le Province, spinge i comuni verso forme di aggregazione e fusione, e soprattutto rende operative le Città metropolitane. È un passo avanti importante: le città più grandi potranno attuare piani di sviluppo economico e spaziale senza dover subire il veto dei mille comuni limitrofi, godendo inoltre di maggiori risorse per fornire servizi migliori ai cittadini. Ma ci si potrebbe spingere più in là, riscaldando l’asettico linguaggio delle leggi con la fiamma dell’Ideale. Si tratterebbe di riprendere la grande riforma dello Stato su base federale immaginata da Adriano Olivetti nel 1946[4]; “sciogliere” i comuni in 400-500 Comunità autonome – strutturate poi in macro regioni da 3 a 5 milioni di abitanti – governate sinergicamente da tre ordini distinti: politico, economico, culturale[5]. Alle Comunità verrebbero assegnati ampi poteri decisionali nel campo dell’urbanistica, dei trasporti, dell’ambiente, dell’economia, del sociale. In questo modo le città, attualmente sequestrate dalle cattedrali del consumo e dalle automobili, rinascerebbero come spazi “pubblici”; luoghi di confronto aperto dove i cittadini tornerebbero a progettare insieme il loro futuro.
Federico Stoppa
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[1] Il paradigma territoriale delle politiche europee si è consolidato con i seguenti documenti: lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (1999), l’Agenda Territoriale dell’Unione Europea (2007), il Trattato di Lisbona (2008) e l’Agenda Territoriale dell’Unione Europea 2020 (2011). Inoltre, ammontano a 351,8 i miliardi di fondi comunitari stanziati nel periodo 2014-20 per la coesione sociale territoriale.
[2] Alcuni esempi per rendere l’idea (v. Calafati, 2009, p. 135): l’area funzionale di Milano conta più di 3,5 milioni di individui, mentre la sola città amministrativa è pari a 1, 3 milioni di abitanti; la FUA di Bologna racchiude più di 500mila individui, contro i 350mila del comune; ad Ancona la FUA è 220mila abitanti contro i 100mila che popolano la città amministrativa.
[3] “Un’Area Metropolitana è costituita da uno dei 9 comuni-capoluogo identificati ex-lege (Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Bari) e dai comuni ad essi integrati dal punto di vista territoriale, delle attività economiche, dei servizi essenziali alla vita sociale e delle relazioni culturali. il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso uniti da contiguità territoriale e da rapporti funzionali possono costituirsi in Città Metropolitane ad ordinamento differenziato” (Compagnucci, 2013).
[4] L’Ordine Politico delle Comunità. Dello Stato secondo le leggi dello Spirito, Edizioni di Comunità, 1946.
[5] Nello schema olivettiano, tre persone costituiscono il nucleo centrale dell’autorità di una Comunità:1) un Presidente eletto a suffragio universale; 2) un Vicepresidente eletto solo dai lavoratori; 3) un rappresentante della cultura, cooptato per meriti scientifici.
”aggregazione e fusione”? sono d’accordo, devono cambiare i presupposti, o meglio la testa.
Hai citato Olivetti, ”Un governo espresso da un Parlamento così povero di conoscenze specifiche non precede le situazioni, ne è trascinato.”
Comunque bell’ articolo, scritto bene e molto ricco, complimenti.
CITTA’ INVISIBILI
di Fausto Corsetti
“Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”.
Sull’onda di alcuni scandali edilizi, del degrado politico, morale e culturale delle nostre città, della confusione urbana della metropoli moderna, risuonano bene queste parole accorte di Italo Calvino, tratte da “Le città invisibili”, un piccolo libro forse poco celebrato, ma senz’altro anticipatore dei tempi. Le città del desiderio, della memoria, dei segni, le città nascoste, le città che vorremmo vivere ogni giorno e che, per pigrizia e cecità, non riusciamo a vivere, diventano sempre più i luoghi del sogno, le città invisibili.
Bisogna riscoprirle queste nostre belle città. Perché le tentazioni della Città del Rumore ci sono sempre e prendono le forme, oggi, di una comunicazione tra la gente, rapida, al minuto, superefficiente e quindi superficiale, di una “realtà virtuale” che ci avvinghia tutti schermi e schermucci; e perché sarebbe meglio pensare di più ad una Città del Silenzio, come luogo privilegiato della parola. E’ quasi un paradosso: il silenzio come comunicazione vera. E quindi tornare a parlarsi. Con il vicino di casa, il passante per strada, con il barbone e il malato di mente.
Tornare sì ad aprire i monumenti, i musei ed i centri storici, ma tornare a riscoprire le strade della città, a starci con i suoi ritmi e i suoi colori, a frequentare i luoghi dove si beve del buon vino e dove si ascolta della buona musica, a fare teatro all’aperto, cinema all’aperto, a ripopolare le nostre strade di poeti, suonatori, scrittori, filosofi, pifferai, giocolieri, incantatori, maghi e astrologi, venditori ambulanti e poveri, matti, mendicanti, come un grande circo dove ognuno può danzare, parlare e stare in silenzio. In una babele di uomini e culture, dove ci sia posto per tutti.
Forse è una città del sogno, una città, appunto, invisibile.
Ma la Città del Silenzio è anche il luogo della dimensione utopica, del ciò che non è ancora e non sarà, come afferma lo storico Vittorio Emanuele Giuntella, in un prezioso volumetto dal titolo “La città dell’illuminismo”: “La città, che è per eccellenza il luogo della storia e il luogo della trascendenza, il segno di contraddizione e quello dell’unità, è Gerusalemme, le pietre della Gerusalemme distesa tra la valle del Cedron e quella di Ben-Hinnom, e l’altra Gerusalemme, quella dell’Apocalisse e della Mishna, che non è ancora, ma che verrà”.
Una dimensione spirituale che però non ci toglie lo sguardo dalla dura realtà urbana di ogni giorno. E’ lo stesso Calvino che ci indica una possibile strada da seguire, per bocca del viaggiatore Marco Polo che racconta ad un desolato e melanconico Gran Khan: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.