Giorgio Fuà lo scriveva già nel 1993, denunciando le insidie delle cifre:”E’ ingiustificato allarmarci o esultare perché la velocità di crescita del Pil risulta mezzo punto percentuale annuo al disotto o al disopra di quanto ci attendevamo, o di quanto è avvenuto in passato, o di quanto sta avvenendo in altri Paesi”. Dopo vent’anni di sostanziale oblio, la critica del prodotto interno lordo (P.I.L.) come indicatore del benessere delle nazioni è tornata a occupare un ruolo di primo piano nella discussione pubblica internazionale. La stesura, nel 2009, del Rapporto[1] a cura della Commissione presieduta da Joseph Stiglitz, e composta, tra gli altri, da Jean Paul Fitoussi e dal premio Nobel Amartya Sen, e lo sviluppo in parallelo di contributi importanti da parte di organismi internazionali come l’OCSE e la Commissione Europea[2] hanno rimarcato l’impellente necessità, in particolare per i paesi ad economia avanzata, di dotarsi di indicatori che consentano di definire in maniera più completa il benessere dei cittadini e il progresso sociale. Sembra essersi diffusa la consapevolezza della necessità di superare la prospettiva riduzionista del PIL.
Il Rapporto della Commissione Stiglitz – Sen – Fitoussi, in particolare, ha introdotto e sintetizzato la problematica in un modo largamente condiviso. Da un lato questo Rapporto è interessante per la sistematicità e il rigore scientifico con cui evidenzia le lacune del PIL come indicatore di benessere economico e sociale; dall’altro, lo è per il fatto di offrire una prospettiva metodologica nuova per la valutazione del benessere. Nell’analizzare lo “stato di salute economica” di un paese – capire se questo si trova in una fase di declino o di sviluppo – il Rapporto suggerisce di spostare l’attenzione dalla misurazione della produzione di beni e servizi alla misurazione del benessere economico delle famiglie, meglio descritto da aggregati quali il reddito reale, la ricchezza e i consumi.
Esistono, infatti, importanti criticità dell’indicatore più utilizzato da economisti e politici di ogni colore per misurare la ricchezza delle nazioni – criticità già messi in luce da un’ampia letteratura richiamata nel Rapporto. In primo luogo, nel PIL, la quantità di beni e servizi finali prodotta in un anno all’interno dei paesi è valutata ai prezzi di mercato. Gli studi di Joseph Stiglitz (1986,1989), hanno dimostrato che i mercati sono contraddistinti da asimmetrie pervasive, rendendo poco efficaci i prezzi dei beni e servizi come meccanismo di veicolazione di informazione per i consumatori. I prezzi di mercato, inoltre, non incorporano le esternalità negative[3] (come l’inquinamento ambientale) che la produzione di alcuni beni comporta, e che dovrebbero far costare di più alcuni prodotti relativamente ad altri.
Il PIL esclude beni e servizi che non hanno un prezzo di mercato, ma che nondimeno appaiono rilevanti per il benessere delle famiglie: è il caso delle attività domestiche, del volontariato, del tempo libero e di alcuni servizi pubblici, come l’istruzione e la sanità. Si tenga presente che molte delle suddette attività, che nelle prime fasi dello sviluppo erano quasi esclusivamente prodotte fuori dal mercato (tra le altre, la cura degli anziani e dei bambini, la pulizia domestica, ma anche i servizi ricreativi, compresi il contatto con la natura e l’esercizio fisico), nelle economie moderne si trasformano in beni di mercato. Questa trasformazione determina un aumento del valore del prodotto interno lordo. Che questo aumento, però, corrisponda a un innalzamento del benessere delle persone è evidentemente falso.
Ancora: nel PIL sono calcolate con segno positivo le “spese difensive”, anche quando queste non hanno alcuna conseguenza benefica sul miglioramento della qualità della vita dei cittadini. E’ il caso della costruzione di carceri, della ricostruzione di edifici che sono stati abbattuti da calamità naturali, delle spese di trasporto sostenute dagli individui per recarsi al lavoro (quella tassa occulta che è il pendolarismo). Infine, il PIL non rileva in alcun modo il consumo di capitale (fisico, naturale, umano) che la produzione comporta; e non tiene conto della variazione di prezzo degli assets reali e finanziari, che spesso determina effetti ricchezza che portano a un incremento delle future possibilità di consumo.
Il Rapporto suggerisce di superare le criticità del PIL sviluppando indicatori di benessere economico e sociale alternativi, sui quali dovrebbero focalizzarsi le politiche economiche degli Stati. In particolare, tali indicatori dovrebbero misurare:
- Il reddito effettivamente a disposizione dei cittadini, che, diversamente dal PIL, considera i flussi monetari in entrata e in uscita dal Paese. Si tenga presente che Il PIL può essere scisso in profitti, salari/stipendi, rendite. Se una parte dei profitti è conseguita da multinazionali estere, questa non viene conteggiata come reddito a disposizione del paese, perché rimpatriata dalla aziende. Pertanto, il reddito disponibile netto nazionale risulterà inferiore al Prodotto interno lordo;
- Lo stato patrimoniale delle famiglie e dell’economia nel suo complesso, comprendente attività (finanziarie, reali e naturali) e passività (debiti pubblici, privati ed ecologici). Dallo stato patrimoniale sarebbe possibile accertare se la crescita dell’economia dipende da bolle finanziarie e immobiliari che ne minerebbero la stabilità futura, specie se ci trovassimo in presenza di livelli d’indebitamento eccessivi;
- La distribuzione del reddito, dei consumi e della ricchezza. Di per sé, la crescita del PIL pro capite non ci dice in alcun modo come tale reddito è distribuito. Infatti, l’aumento del PIL pro capite potrebbe trasformarsi in un miglioramento delle condizioni economiche dei soli cittadini più ricchi. Il benessere generale è meglio colto dal reddito mediano. Se il PIL (reddito medio) cresce più del reddito mediano, la diseguaglianza aumenta;
- La qualità dei servizi pubblici, specialmente istruzione e sanità, che non hanno un prezzo di mercato, essendo erogati, almeno in Europa, dalle amministrazioni pubbliche, e finanziati attraverso la tassazione generale. Mentre nel PIL tali servizi sono valutati al costo dei fattori di produzione, andrebbero sviluppati strumenti che ne rilevino gli effetti sul benessere dei cittadini. Un approccio alla valutazione dei servizi pubblici basato sui risultati, in termini di maggior aspettativa di vita, di tipologie delle malattie curate, di numero di terapie effettuate, sarebbe più congruo per valutare il benessere delle persone. Anche per il sistema educativo, l’enfasi dovrebbe essere maggiormente posta sui risultati degli studenti (tassi di acquisizione di titoli di studio, anni di scuola completati, test sulle competenze linguistiche e matematiche), più che sulle risorse spese;
- La qualità del lavoro, attestando se questo consenta o meno di sviluppare l’autonomia e le capacità dell’individuo;
- La produzione domestica e le attività svolte nel tempo libero a disposizione. Queste attività, pur non comparendo nella stima ufficiale del Prodotto interno lordo, hanno riflessi importanti sul grado di benessere degli individui e delle famiglie;
- La sostenibilità ecologica: informazioni rispetto allo stato del capitale naturale, al suo eventuale deterioramento e alle politiche poste in essere per ripristinarne la quantità e la qualità ritenute ottimali[4];
- La qualità della democrazia. A questo scopo, bisogna considerare il grado di libertà dei mezzi di comunicazione, in specie la stampa e la televisione, la partecipazione politica dei cittadini alle elezioni, il funzionamento della giustizia e la tutela dei diritti fondamentali, in primo luogo la libertà d’espressione;
- Il capitale sociale. Vanno fatte indagini sul numero di persone iscritte alle associazioni, sul grado di fiducia che ciascun cittadino ripone sulle istituzioni politiche, sul rapporto che ciascuno ha con familiari, vicini e persone di altre razze o religioni;
- Il grado di sicurezza economica. Bisogna capire se gli individui si sentono più o meno tutelati contro il rischio di povertà ed esclusione sociale, di vecchiaia e di disoccupazione.
Come ci ha insegnato Amartya Sen (v. La diseguaglianza, un riesame critico, Il Mulino, 1994), per misurare correttamente la qualità della vita delle persone è essenziale osservare le effettive capacità (capabilities) che queste hanno di trasformare i mezzi materiali a loro disposizione in modi di essere e di fare (functioning) a cui attribuiscono valore: essere ben nutriti, avere accesso all’istruzione e alle cure, ma anche partecipare attivamente alla vita della comunità, realizzarsi sul lavoro, battersi per cause che trascendono il proprio particulare come i diritti umani e la salvaguardia dell’ambiente. Inoltre, bisogna tener ben presente che i modi con i quali le persone convertono il reddito a disposizione nei vari stili di vita possono differire in maniera molto significativa, a causa della presenza di determinati condizionamenti fisici, caratteriali, ambientali, sociali, istituzionali. Diventa pertanto essenziale capire, ai fini di una valutazione multidimensionale del benessere, se una persona ha la possibilità di scegliere di vivere in un certo modo piuttosto che in un altro, ed eventualmente identificare e rimuovere i fattori che lo impediscono.
Infine, in questi anni segnati dalla paranoia della crescita vanno tenute sempre a portata di mano, come antidoto, le parole di un grande economista italiano, Giacomo Becattini: “E’ nella sua capacità di soddisfare i bisogni dell’ultimo fra gli uomini di buona volontà, che si misura la razionalità di ogni assetto del mondo, non nel ritmo di ritmo di crescita del Pil! Questa è la bandiera morale del ribaltamento concettuale da compiere!” (2001, p.196).
NOTE:
[1] Il Rapporto è stato commissionato nel 2008 dal Presidente francese allora in carica Nicolas Sarkozy, ed è stato consegnato nel settembre 2009.
[2] Si veda, in particolare, il rapporto OCSE “Measuring Well-Being and Societal Progress” (2007) e il paper, a cura della Commissione Europea “Oltre il Pil. Misurare il progresso in un mondo che cambia” (2009). Da segnalare anche il rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile a cura dell’Istat (consultabile qui) e il Better Life Index a cura dell’OCSE.
[3] Si parla di esternalità negative quando un soggetto economico crea, con la sua attività, un danno a terzi, senza che esista un accordo da parte di questi a sopportarlo e senza che avvenga una compensazione ex post. Sul tema delle diseconomie esterne Pigou (1920) costituisce un riferimento bibliografico essenziale.
[4] Esempi di conti satellite ambientali sono il Seea (System Of Environmental-Economic Accounting), implementato dalle Nazioni Unite nel 1993 (https://unstats.un.org/unsd/envaccounting/seea.asp). Un lavoro seminale nel campo della contabilità verde, a cura dell’INSEE (1986) è Les comptes du Patrimoine Naturel. Sul tema, è importante il contributo dell’ Istat (2011): http://www.istat.it/it/archivio/17089. Infine, per un’approfondita analisi degli aspetti metodologici ed applicativi dei conti ambientali si veda Falcitelli e Falocco (2008).
Un pensiero su “Quella misura sbagliata delle nostre vite”