“Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare infinito” Antoine de Saint-Exupéry
Chi vuole parlare in modo credibile di sviluppo economico e civile del nostro paese deve rompersi il capo sul modo di affrontare problemi come l’abbandono scolastico e la disoccupazione del capitale umano più qualificato. Sono queste le questioni cruciali da cui dipende la sopravvivenza del Paese. Vanno affrontate in modo radicale, recuperando alcune esperienze del nostro passato più insigne. Proponiamo tre figure: Don Milani, come pedagogo. Enrico Mattei, come manager pubblico di formazione tecnoscientifica e non finanziaria, attento quindi più ai risultati di lungo periodo che agli sbalzi giornalieri dei titoli in borsa. Adriano Olivetti, infine, come modello di imprenditore innovativo e solidale e cerniera tra cultura scientifica e umanistica. Tutti e tre sono in grado di illuminare come pochi altri il tempo in cui viviamo.
Nell’Italia rurale degli anni ‘50 in cui viveva Don Lorenzo Milani, la maggior parte della gente era analfabeta. Allora come oggi, si considerava l’istruzione una perdita di tempo. Certo, nell’Italietta pre boom economico si pativa la fame ed era quasi obbligatorio mandare i figli a lavorare presto. Ma questa forma mentis mercantile, che privilegia il guadagno immediato, sicuro, senza particolare sforzo, piuttosto che il faticoso e lento apprendimento che produrrà i suoi frutti solo in futuro, pervade anche la nostra società. Ovviamente, questo atteggiamento favorisce le classi più ricche, che possono permettersi di mandare i propri figli ad istruirsi nei migliori istituti e perpetuare così le disuguaglianze. I dati Ocse (Draghi, 2010) certificano che l’Italia è uno dei paesi a più bassa mobilità sociale intergenerazionale: le prospettiva di carriera e i redditi degli individui dipendono sempre meno da capacità e impegno personale e sempre più dalla situazione familiare di partenza. Don Milani non si arrese però a una scuola classista: la sua pedagogia era centrata non sul livellamento verso il basso dei più meritevoli, ma nella promozione in alto di quei ragazzi che, per scarso interesse e condizioni economiche sfavorevoli, faticavano ad apprendere. Suo obbiettivo era riaccendere la passione dello studente attraverso la partecipazione attiva a dibattiti, la formazione di uno spirito critico, e l’ascolto delle ragioni altrui. La Scuola di Barbiana fondata da questo prete toscano, divenne così famosa a livello internazionale: va recuperato quel modello, liberato dalle incrostazioni del peggior ‘68, se si vuole sconfiggere l’abbandono scolastico.

ARCHIVIO STORICO
TORINO 15 MAGGIO 1954
Enrico Mattei
Nella foto: IL PRESIDENTE DELL’ENI ENRICO MATTEI ALL’INAUGURAZIONE DI UNA NUOVA STAZIONE DI SERVIZIO AGIP
NEG- 59708
Servono manager formati da istituti tecnici e scientifici, non da business schools americane. Manager che non obbediscano alla stupida teoria dello shareholder value, secondo cui l’obiettivo non sia la crescita di breve termine del valore delle azioni dell’impresa nei mercati finanziari; ma la formazione di valore aggiunto che vada ad arricchire l’intero Paese. L’Italia aveva una eccellente classe di manager, operanti nella Grande IRI e in banche di interesse nazionale, che in pochi anni l’hanno trasformata da paese agricolo di serie B in seconda potenza industriale d’Europa: Alberto Beneduce, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Oscar Sinigaglia, Enrico Mattei. E’ soprattutto alla lezione di quest’ultimo che dobbiamo guardare. Mattei si oppose alla svendita dell’Agip agli americani, già programmata dal governo De Gasperi. Costituì l’Eni e dotò l’Italia di una politica energetica indipendente che diede vita al Miracolo Economico. Negoziò accordi più favorevoli con i paesi produttori per l’importazione di petrolio, appoggiando anche le loro lotte d’indipendenza contro il colonialismo; si scontrò con le Sette Sorelle americane del petrolio. Soprattutto: dimostrò come un’economia sana e competitiva abbia bisogno di grandi aziende pubbliche nei settori strategici. Aziende gestite con l’occhio rivolto al benessere sociale e non colluse con i partiti. Aziende pensate come Communities (modello tedesco), non come Commodities (modello americano). Va ripensato un ritorno, in forme nuove, degli investimenti pubblici nell’economia. Le scellerate politiche di privatizzazioni degli anni ’90 hanno portato alla distruzione di autentici gioielli industriali (vedi la recente vicenda Telecom), con migliaia di posti di lavoro qualificato in fumo e l’indebito arricchimento di pochi grandi imprenditori.

(©PUBLIFOTO/LAPRESSE)
Concludiamo con l’ingegner Adriano Olivetti; le cui parole sanno sempre accendere un fuoco nel cuore di chi legge. Questa figura è riuscita ad avvicinare mondi che oggi appaiono distanti e inconciliabili: il mondo delle lettere e dell’arte con quello dell’economia, della tecnologia, della fabbrica. La qualità del prodotto con l’attenzione meticolosa alle esigenze del lavoratore, non solo in fatto di salario, ma anche di servizi, di welfare, di spazio entro cui lavorare, di sviluppo civile della propria persona. Un personaggio del genere fece scandalo negli anni ‘50. Si ha ragione di affermare che farebbe scandalo anche oggi. Come allora, sarebbe detestato dal gruppo di imprenditori che gravitano nell’orbita di Confindustria. Perché per Olivetti la competitività andava perseguita con l’innovazione dei prodotti, con il reinvestimento degli utili in ricerca e sviluppo, non con gli aiuti pubblici, la repressione sindacale e salariale Fiat style. Ma sarebbe trattato con diffidenza, come allora, anche dalla paleolitica classe di sindacalisti e politici che continuano a rappresentare l’imprenditore (e non lo speculatore, che è cosa bene diversa: vedi Schumpeter, 1912) come un parassita, il cui unico scopo è quello di succhiare soldi e sangue ai lavoratori. Negli anni Sessanta il Pci considerava Olivetti “paternalista”, perché con le sue scelte “progressiste” avrebbe tentato di comprarsi il consenso della classe operaia. Classe operaia che, come recitano i “sacri testi”, dovrebbe perpetuare ininterrottamente la lotta di classe contro i “padroni”.
Olivetti apparteneva al filone del cristianesimo sociale. Leggeva (e pubblicava) il T.S. Eliot dei Four Quartets e dell’Idea di una società cristiana, l’operaia mistica Simone Weil, il filosofo del cristianesimo democratico Jacques Maritain. Nei suoi discorsi, ricorreva spesso allo straordinario passo evangelico che San Matteo mette in bocca al Cristo (Matt 6,25:34): “Perciò vi dico: non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Non affannatevi dunque dicendo: “che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”; di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Era profondamente convinto che il lavoro, in quanto Beruf (vocazione, chiamata), avesse un’aura di sacralità, una dignità che non potesse essere misurata dal solo compenso monetario. Per questo oggi si sarebbe certamente battuto contro lo svilimento del lavoro ad opera della attuale cultura d’impresa, per cui il lavoratore è un oggetto intercambiabile da motivare esclusivamente con la carota dell’incentivo di carattere pecuniario o con il bastone del licenziamento. Il che, alla lunga, impoverisce le relazioni sociali e si ripercuote negativamente sulla stessa produttività. Olivetti era convinto che l’impresa avesse un ruolo sociale ben preciso: lo sviluppo integrale della persona umana, la promozione della democrazia economica (e non solo politica) e della Bellezza del territorio in cui opera. Per questo chiamò in Azienda grandi sociologi come Ferrarotti e Gallino, psicologi come Musatti, Novara, Rozzi, scrittori come Paolo Volponi e Geno Pampaloni. Per questo mise a disposizione dei suoi operai una vasta biblioteca, organizzò corsi di storia dell’arte e d’urbanistica, portò in Italia con la sua casa editrice (Le Edizioni di Comunità) i testi dei più grandi economisti e scienziati della politica stranieri, come Kenneth Galbraith e Hannah Arendt. Purtroppo la sua vita si interruppe improvvisamente nel 1960, mentre stava andando in treno in Svizzera. Scomparso Adriano, il nocciolo duro del grande capitalismo italiano – Mediobanca, Agnelli – decise di liquidare la Olivetti del primo computer da tavolo come un “neo da estirpare” (Valletta): la divisione elettronica fu ceduta alla General Electric, segnando la fine di quella straordinaria esperienza.
Tuttavia, la voce di Adriano, con quelle di Mattei e Don Milani, ci parlano ancora, in un coro che oggi griderebbe, soprattutto ai più giovani: non rassegnatevi! Non possiamo più permetterci il lusso dell’indifferenza: è tempo di tornare a camminare insieme, sulla “cattiva strada” da loro tracciata.
Federico Stoppa
Editing grafico a cura di Edna Arauz
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