“Si anch’io devo andare sempre avanti
senza smettere un momento
devo andare sempre avanti
E lavorare lavorare lavorare
e continuare a lavorare lavorare lavorare
e non fermarmi mai”
Gaber, L’Ingranaggio, 1972
“Il tempo non è denaro, ma è quasi tutto il resto“
Ezra Pound, l’ABC dell’economia, 1933
L’Italia si caratterizza per l’assenza di politiche di conciliazione del tempo di lavoro con il tempo dedicato alla cura di sé e a quello della famiglia (work life balance). Si tratta di un aspetto rilevante del benessere sociale su cui insistono molto il recente Rapporto a cura della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi e il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) promosso dall’Istat.
L’equilibrio virtuoso tra tempo di lavoro e tempo libero è favorito dalla possibilità di utilizzare forme di contratto di lavoro part time. Tale strumento permette anche, durante i periodi di congiuntura economica sfavorevole, di redistribuire il monte ore di lavoro tra un ampio numero di persone, tutelando i lavoratori più deboli ed evitando licenziamenti. Il fenomeno del lavoro part time è molto diffuso nell’Europa del Nord e Continentale, mentre è ancora marginale nei paesi mediterranei. L’Olanda, in particolare, si distingue tra i paesi europei per il maggior ricorso a questa forma contrattuale: circa la metà degli occupati ne fa uso. L’incidenza degli occupati part time sul totale è superiore alla media europea anche nel Regno Unito, Danimarca, Germania e Belgio. Diversamente, utilizzano contratti a tempo parziale solo il 17% dei lavoratori italiani (percentuale di 4 punti inferiore alla media europea), il 14,7% di quelli spagnoli e il 7,7% di quelli greci (Tab. 1). Va sottolineato il fatto che in Italia il ricorso al contratto part time si configura spesso non come una libera scelta ma come una necessità dettata dalla mancanza di posti di lavoro standard a tempo pieno (Istat, 2013, p.97).
Tab. 1: Incidenza dei lavoratori part time sugli occupati totali, anno 2012.
La diffusione dei contratti part time favorisce, come attestano i dati Eurostat, la partecipazione al mercato del lavoro –in specie tra le donne e i giovani –la crescita della produttività e quella dei salari. L’Olanda e la Germania – tra i paesi europei che più incentivano il lavoro a tempo parziale – registravano nel 2012 tassi di occupazione superiori al 76%. Rilevante anche il dato sulla disoccupazione giovanile: nei paesi nordici è intorno al 10%, la metà di quanto si osserva nella media dell’Eurozona (Tab.2).
Tab.2: Tasso di occupazione e disoccupazione giovanile (15-24 anni), in percentuale, anno 2012.
Fonte: Eurostat
Viceversa, i paesi del Sud Europa – che si distinguono per un ammontare relativamente elevato di ore lavorate pro capite (Tab.3) – sono anche quelli a più bassa occupazione, soprattutto giovanile. Nel 2012, il 30% dei giovani italiani tra i 15 e i 24 anni non lavorava; in Grecia e Spagna tali percentuali superavano il 50%. Inoltre, in questi paesi la scelta di privilegiare il lavoro full time si riflette negativamente sulla produttività e non paga in termini di salario. In particolare, i salari italiani risultavano i penultimi tra i paesi considerati nella tabella 4, al di sotto anche di quelli spagnoli.
Tab. 3: Ore lavorate all’anno (in media), anno 2012
Tab. 4: Salari medi annui (in USD, a parità di potere d’acquisto), anno 2012
L’analisi appena condotta ci porta ad alcune conclusioni rilevanti. I paesi europei che si distinguono per migliori performance in termini di occupazione, impiego dei giovani nei lavori a più alta qualificazione e qualità della vita, sono quelli che hanno implementato politiche efficaci di conciliazione tra tempo di lavoro e tempo libero, come la riduzione degli orari di lavoro. Politiche siffatte hanno consentito la piena occupazione della forza lavoro e non hanno avuto conseguenze negative sulla produttività – che è semmai favorita da forme contrattuali più flessibili sugli orari – né tantomeno sugli stipendi, tra i più elevati dell’area Ocse. Diversamente, le politiche adottate negli ultimi anni da paesi come l’Italia vanno in direzione ostinata e contraria rispetto alle migliori esperienze europee. Nel nostro paese, si è preferito incentivare il lavoro straordinario – attraverso la defiscalizzazione delle ore lavorate in più rispetto a quelle stabilite per contratto – nonostante il già elevato livello di partenza delle ore lavorate in media all’anno. Il contratto di lavoro part time è stato invece disincentivato – adottarlo ha costi elevati per l’azienda e non consente al lavoratore di ottenere un salario dignitoso – oltre a rivelarsi discriminante per i lavoratori che lo scelgono. Infatti, il lavoratore part time vede spesso compromesse le possibilità di ottenere valutazioni positive da parte dell’azienda e avanzamenti di carriera, a prescindere dalla produttività effettiva del lavoratore. Inoltre, le misure prese dai governi italiani negli ultimi anni – ultima in ordine di tempo, l’allungamento dell’età di permanenza sul luogo di lavoro – hanno ridotto le opportunità di inserimento per gli outsider, con effetti rilevanti sull’occupazione. Di conseguenza, il nostro paese continua a sorreggersi sullo sforzo lavorativo di pochi, mentre una vasta platea di soggetti non partecipa al mercato del lavoro o lo fa nelle varie forme di economia sommersa, senza alcun diritto e sovente in condizioni di sfruttamento.
Si dovrebbe cambiare strada. Lord Keynes vaticinava, più di 80 anni fa, una società che – definitivamente affrancata dal problema economico – sarebbe stata capace di trasformare gli incrementi di produttività in maggior tempo libero per le persone, da dedicare alla cultura e ad attività non di mercato ma ad alta utilità sociale come il volontariato[1]. Giorgio Fuà, dal canto suo, invitava gli economisti, i sindacati e i politici delle società affluenti a smettere di preoccuparsi esclusivamente dei modi di aumentare i salari, ma di pensare piuttosto a come restituire soddisfazione al lavoro, attraverso anche un maggior coinvolgimento dei lavoratori alle decisioni prese dall’azienda (Fuà, 1993, pp.107-08).
Le profezie di Keynes e gli auspici di Fuà si sono effettivamente concretizzati in alcune politiche poste in essere dai paesi dell’Europa del Nord e Continentale – si pensi alle varie forme di work sharing e alla cogestione tra sindacati e padronato nelle imprese tedesche con più di 2000 dipendenti (mitbestimmung)- mentre nel nostro paese le tematiche della quantità e della qualità del lavoro sono state colpevolmente rimosse dal dibattito pubblico.
[1] Addirittura, Keynes sosteneva che – da lì a pochi anni – sarebbe bastata una settimana lavorativa di 20 ore per soddisfare tutti i bisogni essenziali dell’uomo. Le sue previsioni, sottostimate per quanto riguarda la crescita del Prodotto Interno Lordo pro capite (che, dal 1930 ad oggi, si è quadruplicato nei paesi industrializzati, più di quanto si aspettava l’economista inglese, grazie all’aumento esplosivo della produttività del lavoro), sono state drammaticamente disattese per quanto riguarda le ore lavorate. Il caso italiano è emblematico: “il r.d.l. del 1923 fissava in 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali il tetto massimo di esigibilità del lavoro; questa disciplina è stata poi sottoposta a revisione dalla legge n.196/97, che ha ridotto l’orario settimanale di lavoro a 40 ore settimanali e 8 giornaliere” (N. e M. Costantino, 2012, p.12) Una discesa inferiore al 20% in 80 anni! Tra l’altro, nel nostro paese la curva delle ore lavorate è rimasta sostanzialmente piatta dagli anni ottanta ad oggi, a differenza di paesi come la Francia e la Germania (vedi R. e E. Skidelsky, 2012, p.23).
Federico Stoppa